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Il prete di domani

Intervista a don Mario de Maio di Alberto Laggia (da “Jesus” di giugno 2010)

Otto anni fa, intervenendo in merito allo scandalo dei preti pedofili scoppiato negli Usa e in Canada proponeva una specie di «dicastero vaticano» ad hoc, capace di guardare in faccia la realtà, «con scientificità e senza paura». Oggi afferma che i nuovi scandali legati alla pedofilia che hanno sconvolto le Chiese cattoliche del Vecchio continente potrebbero servire da catalizzatore di una riforma ormai improcrastinabile: quella dei modelli di formazione dei nuovi sacerdoti. E provocare una necessaria, salutare, rivisitazione della stessa figura del presbitero. A pensarlo è don Mario De Maio, sacerdote e psicoanalista siciliano che vive e lavora a Roma, apprezzato psicoterapeuta che da anni segue i sacerdoti in difficoltà, nonché fondatore negli anni ’80 dell’associazione Oreundici, un gruppo di credenti che si occupa di spiritualità, scienze umane e promozione sociale (www.oreundici.org).

Otto anni fa, in un’intervista a “Jesus”, lei affermava: «La pedofilia tra i sacerdoti è meno diffusa che altrove ed è sicuramente in diminuzione». Confermerebbe oggi quella sua valutazione?

«Certamente. Perché i casi che fanno tanto rumore oggi si rifanno quasi tutti a 20-30 anni fa. Nel frattempo il clima, il modo di formare i sacerdoti è molto cambiato. E poi sui grandi numeri valgono le statistiche note. Ed esse dicono che la percentuale dei pedofili tra i sacerdoti è molto bassa. Purtroppo gli abusi sessuali si consumano molto di più dentro le famiglie, il 90% avvengono tra le mura domestiche, tra consanguinei e parenti. Sembra un paradosso, ma per certi versi quest’ultimo scandalo pedofilia in seno alla Chiesa potrebbe rivelarsi provvidenziale».

Si può spiegare meglio?

«Nel senso che da questa vicenda la Chiesa dovrebbe saper cogliere la necessità di rinnovamento e favorire le esperienze più coraggiose di formazione dei sacerdoti già avviate qua e là in alcune diocesi. E poi perché la bufera sui preti molestatori ha messo in crisi l’impalcatura che si è creata per contrastare gli effetti del Concilio».

Addirittura?

«Ci faccia caso: più d’un vescovo coinvolto nelle coperture dei casi di pedofilia tra il clero era anche tra i paladini del ritorno al pre-Concilio. Insomma, adesso siamo costretti a decidere: quali sacerdoti vogliamo per il domani? Ovvero: qual è il nuovo modello di sacerdote che dovrà nascere in seno alla Chiesa?».

Lei vuole dire che lo scandalo pedofilia costringerà ad accelerare la trasformazione della figura del sacerdote, adeguandola alle nuove sfide pastorali?

«Sì. Da questa vicenda, forse, abbiamo compreso che non possiamo essere assillati solo dal numero sempre più ridotto dei sacerdoti che i seminari sanno sfornare. Resta la preoccupazione per il calo delle vocazioni e la necessità di farvi fronte adeguatamente, ma è emersa finalmente una nuova attenzione alla formazione dei candidati al presbiterato. E in alcuni seminari si sta operando in modo coerente. Ma non solo. I recenti scandali ci hanno finalmente costretto a porci un altro problema: quello della formazione e dell’accompagnamento dei giovani sacerdoti, usciti da quella campana di vetro che è ancora il seminario. Quale accompagnamento viene fatto alla vita pastorale? Spesso un giovane prete viene lasciato solo, magari già con la responsabilità di una parrocchia. Servirebbe, per il primo quinquennio almeno, un tutoraggio pastorale e spirituale discreto, amichevole, non certo ispettivo».

Questo vale per i preti diocesani…

«Sì, ma per i religiosi vale ancor di più. Nelle congregazioni si caricano subito sulle spalle dei nuovi consacrati delle responsabilità enormi, che richiedono competenze diverse e complesse».

Si parlava del ruolo dei seminari. Quelli italiani sono meno «adeguati ai tempi» rispetto a quelli all’estero?

«No, non è che lontano da qui la situazione sia migliore. Prima dei seminari, comunque, osserverei che nelle stesse Facoltà teologiche da diversi anni vi è anche la Facoltà di psicologia, come quella della Gregoriana per esempio, il cui preside divenne pure rettore, a dimostrazione di una grande attenzione nei confronti delle scienze umane».

E la situazione nei seminari?

«Soprattutto subito dopo il Concilio tutti i seminari sentirono l’esigenza di dotarsi di una figura che potesse aiutare gli studenti con competenze nelle scienze umane. Nei grandi seminari non c’è solo uno psicologo ma un’intera équipe con queste competenze. Sono convinto che oggi in queste strutture ci siano ottimi psicologi laici. Ma ancor meglio sarebbe se vi fossero psicologi religiosi: conoscendo dall’interno la realtà e le problematiche del clero, potrebbero essere ancor più utili in certe situazioni di disagio esistenziale. Però…».

Però?

«I vescovi sono assillati dalla crisi delle vocazioni. Ciò, in alcune circostanze, ha portato e porta a una minor accuratezza nella selezione delle persone da ammettere ai seminari».

Parliamo allora degli aspiranti sacerdoti. Quale selezione prima, e quale formazione poi?

«Bisogna partire con la formazione prima che un giovane entri in seminario: va fatto un lungo cammino di valutazione di questi ragazzi sulle motivazioni della vocazione, sulla struttura della personalità e sulle loro qualità umane».

Intende maggiori attenzioni all’area dell’affettività e dell’identità sessuale?

«La differenza sostanziale tra i seminaristi d’oggi rispetto a quelli di ieri è che un tempo si entrava giovanissimi, anche a 8-10 anni. Oggi la popolazione dei seminari è assai più matura. Quasi sempre maggiorenni, già strutturati sia come identità di persona che di genere. Ma il modello formativo, intanto, non s’è adeguato».

E allora che fare?

«Bisogna ripensare a tutto il percorso formativo. A partire dalla scansione degli esami. Bisogna creare itinerari più personalizzati, e un ambiente in cui il seminarista adulto si senta accolto e aiutato anzitutto a capire sé stesso. Oserei dire che si dovrebbe pensare a un modello di formazione individuale, su misura per ogni giovane. Ci sono esperienze qua e là che hanno iniziato a considerare questo cambiamento, ma il modello è rimasto in genere ancora quello legato al passato».

Quali regole d’oro si darebbe per operare una selezione oculata dei candidati al sacerdozio?

«Scegliere ragazzi meno bacchettoni e più ricchi d’umanità. A volte un certo spiritualismo è solo la copertura di una grande fragilità. Quando un giovane bussa alla porta del seminario, chiedersi bene perché lo fa, che ne è della sua affettività, e come ha vissuto fino a oggi la sua sessualità».

E prima del seminario?

«Già in parrocchia il giovane dovrebbe trovare un appoggio per scegliere quale strada intraprendere nella vita. Le giornate delle vocazioni non bastano. Un tempo, un ragazzo, prima di entrare in seminario, era già stato sottoposto a una lunga selezione, nel cosiddetto “pre-seminario”, e ancor prima. Servono meno conferenze e ritiri, e più esperienze di relazione accompagnati quotidianamente da un tutor integrato che funga da interfaccia coi superiori e gli insegnanti del seminario, e che si prenda carico della struttura della personalità dell’aspirante sacerdote e degli eventuali elementi devianti presenti in essa».

Tali devianze, oggi, sono individuate tempestivamente nei seminari? E come si interviene?

«Oggi c’è molta più attenzione di trent’anni fa. Tuttavia siamo lontani dall’optimum. E in Italia non esiste ancora un confronto tra le esperienze in corso su questa materia delicatissima. Non mancano lodevoli iniziative locali, come l’attività della Gregoriana che forma la figura particolare del “consigliere spirituale psicologico”, pensato e voluto da Paolo VI. Ora, però, bisogna mettere insieme le persone che lavorano in questo campo e far circolare le esperienze».

Più d’uno ha ipotizzato un collegamento tra i fenomeni di pedofilia tra preti e l’obbligo del celibato. Lei che ne pensa?

«Non esiste assolutamente connessione diretta tra pedofilia e celibato come obbligo. Ma in qualche modo quest’ultimo può creare preoccupazione nei formatori. Ciò non sempre aiuta il clima di serenità che dovrebbe caratterizzare questa sfera. Senza volerlo, si favorisce così una deriva sessuofobica. L’altro aspetto che bisogna riconoscere è che molte figure di giovani che hanno difficoltà relazionali, col celibato obbligatorio, in qualche modo sono attirate dal seminario e dalla possibilità di intraprendere una strada in cui non si è costretti a fare i conti con una moglie e a preoccuparsi per i figli».

Il seminario sedurrebbe cioè le personalità deviate?

«No, senza presupporre per forza forme di devianza, diciamo che personalità fragili si possono sentire rinforzate da una struttura forte, monolitica e da un ruolo come quello del prete. Penso che prima o poi si dovrà affrontare la questione del celibato e rivalutarne l’opportunità o meno dell’obbligo».

Lo stesso discorso vale per l’omosessualità nel clero?

«C’è lo stesso problema. La questione è come aiutare queste persone che scoprono in loro un’identità omosessuale, e aiutarle a valutare le vere motivazioni della vocazione, così come per gli eterosessuali. Rimane la domanda per tutti sulla capacità di restare fedeli all’impegno del celibato».

Secondo lei un omosessuale può accedere al sacerdozio?

«Non sono tra quelli che vogliono precludere il sacerdozio agli omosessuali. Ma bisognerà fare molta attenzione nel capire le vere motivazioni che li spingono a consacrarsi al Signore. Oggi queste persone vivono nell’ombra, dovrebbero uscire allo scoperto nei seminari, potrebbero essere aiutate al discernimento. Credo che dopo la pedofilia, quella dell’omosessualità sarà la prossima questione della quale dovrà occuparsi la Chiesa».

Per i sacerdoti pedofili invece che si deve fare?

«Purtroppo non molto, perché non hanno la motivazione per dover cambiare. La personalità deviata da questa perversione è scissa e i comportamenti sono compulsivi, perciò non controllabili. Il lavoro di ribaltamento della personalità in persone mature se non anziane è arduo; più efficace, invece, se i soggetti sono giovani. È necessaria, comunque, la riduzione allo stato laicale e l’inserimento in una comunità terapeutica, come quella dei padri Venturini che opera da molti anni a Trento».

Si accusano i vescovi d’aver taciuto…

«Vent’anni fa non c’era né tra i vescovi, né nella società civile una vera coscienza di cosa fosse la pedofilia. Questa consapevolezza è stata conquistata di recente. E poi attenzione: il pedofilo è una persona capace di camuffarsi assai bene e non basta certo un laureato in psicologia per scovare una tale personalità così sfuggente. Ci vuole una lunga esperienza clinica. E sono pochi i professionisti in Italia che posseggono queste competenze».