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L’appello di Abram

tratto dal volume “Da Adamo ad Abramo o l’errare dell’uomo – Lettura narrativa e antropologica della genesi” di Andrè Wènin

1 E Adonai disse ad Abram: «Vattene dalla tua terra e dal tuo parto e dalla casa di tuo padre verso la terra che ti farò vedere,
2 (affin)ché io ti faccia in grande nazione e che ti benedica e che renda grande il tuo nome e che tu sia benedizione
3 e che io benedica coloro che ti benedicono – ma chi ti disprezza, lo maledirò – e che in te acquistino per esse la benedizione tutte le famiglie dell’humus».
4 E Abram andò come Adonai gli aveva parlato e Lot andò con lui. Ora Abram aveva settantacinque anni quando uscì da Carran.

Le prime parole di Adonai ad Abram invitano il figlio di Terach ad allontanarsi dalla terra in cui è venuto a dimorare con suo padre, il luogo in cui è nato, cioè il suo clan paterno. Mirando alle radici profonde della sua vita – radici attuali, personali e familiari – la rottura richiesta è «radicale». Allo stesso tempo, l’ordine divino riprende un progetto la cui realizzazione è stata abbozzata quando Terach lascia Ur. Abram deve quindi rimettersi in cammino, spingersi oltre verso l’ignoto, strappandosi a quel che conosce. Infatti, Adonai gli ordina proprio di separarsi da qualcosa che può credere suo o che lo possiede – «la tua terra, il tuo parto, la casa di tuo padre» – per andare verso ciò che non sarà dell’ordine del possedimento: «La terra che io ti farò vedere». In un certo qual modo, si potrebbe dire che gli chiede di passare dall’avere al «da vedere», un atteggiamento senza appropriazione, impossessamento o bramosia.

Se per Abram partire in questo modo significa rischiare un avvenire ignoto, quel che gli dice Adonai presenta comunque alcuni punti di riferimento. Innanzitutto, se Abram l’accetta, l’avventura avrà per lui una dimensione relazionale. Il gioco dei pronomi lo indica chiaramente. Dopo i tre possessivi di seconda persona che, al v. la, isolano, per così dire, Abram in se stesso o nel circolo familiare al quale appartiene, vengono poi dei pronomi di prima, poi di terza persona. Così, la partenza di Abram permetterà che, successivamente, si instauri una relazione con Adonai («io-tu», vv. lb-2), poi con gli altri umani («io-tu-loro», v. 3). Se Abram acconsente a lasciare l’ambiente chiuso della «casa di suo padre», andrà verso un mondo di relazioni che andranno allargandosi continuamente.

Un secondo tratto riguarda ciò che l’ordine divino ha di mira: si tratta della vita, della benedizione, anch’essa in espansione partendo da Abram. Qui, per poter capire, il lettore è probabilmente più informato del personaggio. Siccome l’ordine è emanato da Adonai e intima una separazione, acquisisce, agli occhi del lettore, una dimensione di creazione, il cui risultato dovrebbe quindi andare verso il felice compimento della vita. Del resto, il lettore vede Adonai riprendere qui il disegno che persegue fin dall’inizio: la benedizione dell’umanità. Il progetto abortito degli abitanti di Babilonia non ha quindi compromesso il progetto d’insieme di Dio. Ma nella misura in cui le famiglie umane sono adesso disperse, è ormai attraverso un individuo che vedremo come la benedizione dovrebbe raggiungerle.

Infine, per Abram, partire sulla parola di Adonai presuppone un atto di fiducia, da cui il lettore è in grado di percepire che, in realtà, viene preceduto e chiamato dalla fiducia divina. Rivolgendo la parola ad Abram, infatti, Adonai ripone in lui la sua fiducia, poiché sembra affidarsi a lui affinché la sua benedizione giunga a tutte le famiglie umane.

Lo si vede: se, a questo punto, c’è effettivamente elezione – come sottolineano certi testi biblici -, questa non ha niente a che vedere con una scelta dichiara ta, una preferenza manifesta o un qualsiasi favoritismo. Questa appare molto più come un compito che riguarda in primo luogo lo stesso Abram, poiché si tratta per lui di andarsene, di separarsi, di assumere una singolarità in un movimento che si trova all’opposto di quello generato dalla bramosia. Forse da qui l’espressione particolare dell’imperativo iniziale del v. 1, in cui il verbo (lék) è seguito da un complemento (leka, una preposizione con il suffisso di seconda persona) al quale i grammatici dell’ebraico biblico attribuiscono un senso riflessivo, che indica che l’azione riguarda in primo luogo il soggetto dell’azione.

Detto questo, bisogna tornare dettagliatamente su quella che viene convenzionalmente chiamata la «promessa» che deve realizzarsi se Abram adempie al l’ordine di Adonai. In realtà, l’aspetto «promessa» non è messo in evidenza nel testo ebraico. La sintassi del discorso divino suggerisce, piuttosto, che i verbi che seguono l’imperativo iniziale esplicitano lo scopo di Dio. Questi verbi, infatti, sono coniugati in una forma volitiva che in ebraico serve a indicare lo scopo di un ordine («affinché») oppure la sua conseguenza («di modo che»). Sono raggruppati in due serie di tre. La prima serie riguarda Abram nella sua relazione con Dio, la seconda nella sua relazione con gli altri umani. Nella prima, gli elementi esterni si corrispondono grazie all’uso di un termine legato alla radice gdl, che connota l’idea di grandezza (l’aggettivo gadol e il verbo gadal).

Vattene dalla tua terra e dal tuo parto e dalla casa di tuo padre […]
affinché IO TI faccia una grande nazione
e che IO TI benedica
e che IO ingrandisca il TUO nome…

Il verbo centrale di questa serie, «benedire», viene ripreso e sviluppato nella seconda serie di verbi, a proposito della relazione tra Abram e le nazioni:

e che tu sia-benedizione
e che io benedica coloro che ti benedicono […]
e che in        acquistino-per-loro-benedizione tutte le famiglie dell’humus

La benedizione di cui Abram sarà beneficiario in caso di partenza (centro della prima serie) deve proprio estendersi alle famiglie della terra, e la seconda serie di verbi precisa come questo avverrà. Riprendiamo.

La «promessa» è quindi innanzitutto per Abram stesso: al posto della «tua terra», Adonai gli farà vedere un altro paese; invece di rimanere ripiegato sul «tuo parto», sulla sua origine, diventerà una grande nazione attraverso la sua discendenza; e, al posto del nome ricevuto nella casa di suo padre, che gli ha dato un nome che lo riferiva a sé, riceverà un grande nome, tutto suo. Per giunta, gli verrà data la benedizione divina, conseguenza logica della rinuncia a un modo di essere tipico della bramosia.

Quello che Adonai ha in mente, però, non si ferma ad Abram. Se questi è benedetto, infatti, lo è per «essere benedizione», cioè per diventare il canale della benedizione per altri. La «promessa» ricevuta in questo modo dal benedetto, in realtà definisce per lui i termini di una missione: essere portatore della benedizione degli inizi, destinata all’insieme dell’umanità. Così, nella seconda parte del suo ordine Adonai svela – almeno agli occhi del lettore – che il disegno che comanda l’elezione di Abram altro non è che l’antico progetto di benedizione (1,28; 9,1) che si è scontrato diverse volte, nei destinatari umani, con varie scelte portatrici di maledizione e di morte (3,14.17; 4,11; 5,29; 9,25). Invitando Abram a entrare in questo progetto, Adonai gli chiede di essere parte integrante della sua realizzazione. Quindi, con l’elezione, manifesta che non realizzerà la salvezza degli umani senza che al meno uno di loro accetti di collaborare. Fin dall’inizio, si innesca una dinamica di alleanza tra Adonai e l’essere umano.

Che Abram sia benedizione per gli altri, però, non dipende solo da lui e dal la sua obbedienza all’ordine di Adonai. Poiché, se la benedizione è rivolta a «tutte le famiglie dell’humus», questa non potrà raggiungerle senza di loro, senza che adottino a loro volta un atteggiamento adeguato. È così che, al v. 3, Adonai enunci una specie di «regola del gioco». Questa consiste, per gli umani destinati a ricevere la benedizione in Abram, nel non riprodurre l’atteggiamento di Caino che si immerge nella maledizione e nella morte, perché incapace di vedere positivamente la considerazione riservata a suo fratello da Adonai. Non capendo che la presenza di questo fratello è per lui vitale, non vede neppure che accettarlo è per lui il cammino della vita e del suo felice compimento. Accecato dalla sofferenza di non beneficiare di quanto desidera, non coglie l’opportunità che gli viene offerta. Con l’elezione di Abram, questa situazione si riproduce per chi non è, come l’eletto, depositario della benedizione. Di fronte a quest’ultimo, si trova, infatti, nella posizione di Caino di fronte ad Abele. Ma se, lungi dal provare, come Caino, gelosia nei suoi confronti, lo benedice, cioè se riconosce in lui il benedetto da Dio attraverso il quale la benedizione può essergli data, allora anch’egli potrà godere di questo dono di vita.

Se è così, ci si accorge che coloro ai quali è destinata la benedizione hanno anch’essi qualcosa da lasciare, da abbandonare: la bramosia, la gelosia che sbarra l’accesso alla benedizione. La vita, infatti, non può svilupparsi in pienezza in un contesto di rivalità e di concorrenza, ma solo in un contesto di condivisione e di scambio. In questo senso, come Abram deve accettare di abbandonare la sua terra, la sua origine di nascita e la sua casa per rispondere all’invito di Adonai, chi vuol ricevere la benedizione deve anch’egli sottrarsi alla logica di invidia, di bramosia: «Che cosa significa “benedire colui che è scelto”, se non sfuggire al tranello della gelosia?», scrive in questo senso P. Beauchamp. In compenso, colui che disprezza Abram, che lo tratta alla leggera (secondo il significato basico del verbo ebraico all qui utilizzato), sarà destinato da Adonai alla maledizione, alla morte che lui stesso sceglie. Infatti, colui che rifiuta di entrare nel riconoscimento che il felice sviluppo della propria vita passa attraverso una relazione giusta con l’altro, incorre nella maledizione di Caino, nella misura in cui il suo atteggiamento è negazione dell’altro, violenza e morte. In questo modo, le ultime parole di Adonai prendono senso: «In te acquisteranno per esse la benedizione tutte le famiglie dell’humus». Nel gioco descritto qui sopra, la benedizione viene offerta a tutti da Adonai attraverso Abram. Non viene imposta a nessuno, ma ognuno può acquisirla adottando liberamente un atteggiamento che non riproduca la bramosia gelosa di Caino. In tal modo, nessuna mediazione viene messa da parte in questa dinamica di alleanza, in cui nessuno rimane passivo, ma in cui nessuno fa tutto, e in cui la salvezza si opera solo se ognuno collabora attivamente attraversando la prova della bramosia. È quel che indica, sul piano della sintassi, il fatto che, nella seconda serie di verbi descritta qui sopra, ogni personaggio sia a sua volta soggetto del verbo «benedire»: Abram («che tu sia benedizione»), Adonai («che io benedica…») e le nazioni («che acquistino per esse benedizione tutte le famiglie dell’humus»).

Vista da questa angolatura, l’elezione appare come un mezzo di benedizione e di salvezza. Attraverso di essa, il Dio di vita offre agli umani di attraversare di nuovo i luoghi in cui la bramosia semina discordia e morte, per farvi trionfare la vita, poiché vita e benedizione sono offerte, ma possono svilupparsi felicemente solo laddove ognuno acconsente di vivere il proprio desiderio senza viziarlo, senza pervertirlo in invidia. La vita può allora svilupparsi pienamente, grazie ad Adonai che inventa l’elezione con la speranza di ostacolare la morte – il serpente -, grazie anche agli attori umani, purché accettino di entrare nel gioco.

Si vede, quindi, in che cosa l’appello di Abram proponga una dinamica che risponde adeguatamente all’errore commesso nell’Eden, dinamica di alleanza, di comunione di differenze: ognuno, a modo suo, gioca lo stesso gioco della vita e collabora alla vittoria sulla bramosia e sulle sue conseguenze di violenza e di morte, come la storia precedente ha ampiamente illustrato. Così, ognuno può cooperare da soggetto alla salvezza che, insieme, riceve da Dio e dall’altro. In questo triangolo dell’alleanza, nessuno è al centro. Al contrario, ogni partner si sbilancia verso la relazione tra gli altri due: Adonai serve la pace tra gli umani, l’eletto porta il suo progetto di vita per tutti, mentre il non eletto benedice Abram dell’opportunità che rappresenta per lui la sua chiamata. Ma se entreranno in questa logica, gli umani stessi permetteranno a Dio di realizzare il suo sogno di benedizione. Con l’elezione, infatti, Adonai abbandona ogni controllo sulla salvezza che offre, poiché gli umani possono acconsentirvi solo liberamente. Insomma, Adonai ripone la sua fiducia in Abram e negli altri. Sceglie di affidarsi a loro per ricevere da loro la gioia di vedere la vita svilupparsi pienamente, conformemente al suo sogno in opera fin dalla creazione (1,28-29). Assumendo questo rischio, però, manifesta che anche lui rifiuta di giocare il gioco della concorrenza, frutto della bramosia.

Insomma, nella strategia di vita inaugurata dall’elezione di Abram, la dinamica di alleanza appare centrale, poiché non priva nessun attore né della propria responsabilità né della propria libertà. Queste, al contrario, vengono sollecitate per una scelta cruciale opposta a quelle di Adamo ed Eva, di Caino o ancora degli abitanti di Babilonia. Pertanto, la salvezza che ne risulterà non avrà niente di magico: ognuno è rispettato, come pure tutte le mediazioni. Questo è il cammino di vita abbozzato da Adonai quando chiama Abram. Dietro la preferenza apparente che Dio gli concede, si nasconde in realtà il suo amore per tutti, insieme a un infinito rispetto della libertà di ognuno.31 Una libertà che suscita, nella speranza di vedere degli umani compiere il suo desiderio di vita.

Conclusione

«E Abram andò come Adonai gli aveva parlato» (v. 4). Ecco alcune parole ricche di significato per una rottura che non lo è di meno. Suppongono, innanzitutto, che Abram abbia sentito nell’ordine ricevuto una parola che viene da Adonai, alla quale reagisce senza indugi. Infatti, la congiunzione utilizzata (ka’ashèr, «come») ha in ebraico (come anche in italiano) un senso comparativo, che indica che Abram parte conformemente a quel che gli ha detto Adonai, ma ha anche un senso temporale, che precisa che se ne va fin dal momento in cui la parola gli è stata rivolta. Così, la sua obbedienza senza difetto viene doppiamente sottolineata.

Un altro aspetto di quel che viene raccontato in questo modo è ancor più importante. Andandosene, infatti, Abram adotta un atteggiamento che provoca, nel racconto, una svolta a centottanta gradi. Infatti, questa partenza su ordine di Dio inverte completamente i comportamenti che, sotto gli occhi del lettore, gli umani hanno adottato fin da Adamo ed Eva (eccezion fatta per Noè).

Nel giardino dell’Eden, gli umani ricevono un dono di vita (2,16) accompagnato da un ordine di Adonai che invita a rinunciare a un albero per non morire (2,17). Malgrado questo dono di cui godono, non si fidano della parola divina, preferendo ascoltare il serpente che promette mari e monti se osano prendere e mangiare, rifiutare il limite, accaparrare per sé il tutto. Abram, al contrario, ha solo la parola divina che gli ordina di lasciare tutto in vista della benedizione, mentre il dono di vita è ancora allo stato di promessa – una promessa fin dall’inizio compromessa, vista la sterilità di Sarai. Malgrado questo, fiducioso nella parola di Adonai, Abram ascolta l’ordine e se ne va, scegliendo di rompere con il cammino illusorio della bramosia di cui il lettore sa che porta l’umano alla morte.

Non potrebbe forse essere questa la ragione per cui Abram può essere chiamato «padre dei credenti»? La fiducia che ripone in Adonai apre, infatti, una possibilità di sinergia tra gli umani, affinché la loro vita possa svilupparsi felicemente nell’ambito della benedizione. Ma per lo stesso Abram, questa partenza costituisce come una nuova nascita: il verbo «uscire», utilizzato alla fine per esprimere la sua partenza («Abram aveva settantacinque anni quando uscì da Carran»), è infatti il verbo della nascita quando colui che nasce si trova in posizione di soggetto. Ora, il lettore forse se ne ricorderà, questo verbo veniva già usato alla fine della storia di Caino, in 4,16 («E Caino uscì lontano dalla faccia di Adonai, e abitò nella terra di Nod…»). Incapace di ascoltare la parola rivoltagli da Adonai per invitarlo a uscire dal mondo materno, Caino aveva ucciso suo fratello (4,6-8), precipitando nella maledizione. Aveva tuttavia finito col «nascere», ma per conoscere l’erranza lontano da colui che lo invitava alla vita. Inversamente, Abram «esce» sulla parola di Dio, che lo accompagna sul cammino intrapreso. Ma mentre lo apre alla benedizione, questa nascita gli permette anche di diventare per gli altri un’opportunità di vita, grazie alla benedizione di cui sarà latore. È quindi forse un caso se Abram, lasciando suo padre, si dirige verso il paese di Canaan (12,5), il paese dei discendenti di colui che, più di qualsiasi altro, è stato segnato dalla maledizione a causa di suo padre (9,25)? A cosa serve, infatti, la benedizione, se non raggiunge il maledetto?

Ma lasciando «la casa paterna», una famiglia paralizzata da Terach in una logica per così dire «babilonica», Abram serve anche il progetto divino di opporsi alla dinamica dei costruttori di Babilonia. Il desiderio di questi ultimi, infatti, è l’uniformità, la sicurezza, foss’anche al prezzo della negazione delle persone e della loro singolarità. Al contrario, partendo, Abram acconsente a diventare diverso, ad assumere la singolarità irriducibile che consiste nell’essere, per ogni umano, latore della benedizione divina. Accetta, in questo modo, di rinunciare alla logica in opera negli abitanti di Babilonia. Ormai, almeno un umano non potrà essere assimilato, conformato; almeno un umano assumerà il rischio di rivendicare la propria differenza, anche a costo di destabilizzare gli altri e di mettere così in pericolo la propria sicurezza. Per questo, certo, è necessario che Abram rimanga fedele al progetto al quale aderisce lasciando la casa di suo padre. (Il lettore della Genesi non tarderà molto ad accorgersi che questo cammino è una prova assai pesante e che l’adesione iniziale dovrà essere rinnovata passo dopo passo).

In queste poche righe, ciò che viene di solito chiamata «l’elezione» appare chiaramente come un dono di Dio in vista della vita e della felicità degli esseri umani. Apre, in realtà, un’opportunità di rivisitare i luoghi in cui hanno trionfato la maledizione e la morte – in Eden, con Caino poi con Cam, in Babilonia – in modo tale che la benedizione e la vita possano investirli e farvi il loro nido con la speranza di vedere realizzarsi il disegno di Adonai, a scapito del serpente e della sua discendenza multiforme (cf. 3,15). Nessuna giustificazione viene data per la scelta della persona di Abram. Il narratore non fornisce nessun elemento che permetta di spiegarla. Da nessuna parte, sottolinea una qualità o un’opera che varrebbe ad Abram questa chiamata. Ma, dopotutto, che cosa gli vale di essere l’eletto? Di essere l’oggetto della scelta divina, o di aver acconsentito negli atti alla separazione richiesta? Non è forse di aver accettato di rinunciare all’atteggiamento ispirato, in un modo o nell’altro, dal serpente? Non è forse di aver acconsentito al desiderio di vita di Adonai per lui e per ogni essere umano?