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La paura del nulla

da “Oreundici” di novembre 2006

La morte è un’immagine per il gusto dei greci di fare immagine ogni evento importante, decisione passata nel cristianesimo che mette sotto la protezione di santi, tutti i passaggi di tempo e tutte le varie attività dell’uomo. Nella cattedrale della mia città natale, Lucca, la morte è l’immagine della giovanissima moglie del signore della città, Paolo Guinigi. L’arte di Jacopo della Quercia schiude la nostra fantasia al ricordo di Francesco Petrarca davanti alla giovane amata stesa sul letto di morte: “Morte bella parea nel suo bel viso”. Il letto funebre della giovane Ilaria del Carretto è festosamente acceso dalla danza di putti che sostengono una primaverile ghirlanda. La danza pare fermarsi davanti al visitatore preso dall’incanto suscitato da uno dei monumenti funebri considerati tra i più belli del nostro Rinascimento, con l’avvertimento: non destate, non scuotete dal sonno l’amata finché essa non lo voglia (Ct. 3,7). Vicino a questo monumento funebre, un sepolcro sormontato da un teschio ci ricorda a caratteri greci che “tutte le cose sono mortali, immortale è solo la morte”. “Ricordati uomo, che non puoi sfuggire alla morte”. Un bel libro francese “L’uomo e la morte” che lessi parecchi anni fa, è una rassegna dell’atteggiamento di diverse culture in diversi tempi di fronte alla morte. La morte è un’astrazione, esistono gli esseri umani che si allontanano per sempre dalla convivenza con gli altri. I testimoni di questa scomparsa e di questa assenza, e le varie reazioni di pace, di rivolta, di accettazione rassegnata e talvolta di liberazione per la prossimità ad una sofferenza troppo prolungata e troppo lacerante, è la nostra storia quotidiana. Nell’educazione cattolica la notizia della morte è stata trasmessa avvolta da presagi tenebrosi, basta ricordare l’inno “dies irae” che pure ha avuto commenti musicali celebri. Ricordo un’esecuzione della Messa di Requiem di Verdi nell’Arena di Verona diretta dalla bacchetta meravigliosa di Georges Prêtre seguita da un silenzio solenne sboccato in un applauso finale che sottolineava la profonda emozione del pubblico; ma l’appello finale tenerissimo non cancella l’immagine di un tribunale rigoroso dominato dallo sguardo infallibile di un Dio che scruta le trasgressioni dell’uomo. “Ti ho lasciato la libertà di fare tutto il male di cui sei stato capace, ma ora sei nelle mie mani e non mi sfuggi”. Credo che questo inno sia stato escluso dalla liturgia dei defunti perché quel Giobbe che si alza come un gigante dalla polvere per interpellare il suo creatore, oggi non esiste sulla faccia della terra. La bestemmia di Giobbe è una preghiera e talvolta, in questa società del denaro e dei consumi, la preghiera può essere una bestemmia . L’uomo di oggi pare disorientato nell’ esperienza della sua esistenza ed è più vicino al Giobbe deluso di fronte al mistero di un Dio conosciuto come amore che sembra eclissato dalla sua vita: “Uno muore in piena salute – tutto tranquillo e prospero – i suoi fianchi sono coperti di grasso – il midollo delle sue ossa è ben nutrito – Un altro muore con amarezza, con amarezza in cuore senza mai aver gustato il bene – nella polvere giacciono insieme i vermi li ricoprono (Gb. 21). Nel “dies irae” risuona questo confronto drammatico: tutte le azioni compiute sulla terra sono sotto i tuoi occhi e ci accusano. La chiesa sa che l’epoca di questi giganti della fede che guardano il sole ad occhi aperti ed osano rimproverarlo: ‘troppa luce per il nostro sguardo’, è tramontata per sempre e l’inno medievale è solo una grandiosa scena di un’epoca lontana. Resta ancora, sempre più flebile, l’uso di scongiurare la paura della morte depositando nel banco dello Spirito Santo dei titoli valevoli nell’aldilà. Un libro molto gustoso rappresenta un mercante di Prato che corre affannosamente alla ricerca di accumulare soldi perché vuole assicurarsi una vecchiaia comoda e felice; ma arrivato agli ultimi tempi si accorge che presto batterà alla porta della morte, e la paura gli porta via tutti i soldi accumulati con furba capacità. Un’angoscia profonda riempie oggi il vuoto scavato dalla perdita del senso vero ed unico dell’esistenza, la gioia. La morte diffusa dall’uomo sulle cose create e sugli esseri umani (un bambino muore di fame ogni otto secondi) denunzia questa angoscia che rode il cuore dell’uomo, specialmente quello definito felice perché sazio. A proposito di morte, leggendo un filosofo francese (1) ha colpito la scoperta di un saggio cinese vissuto tre secoli prima di Cristo, Zhuangzi, che parla dell’essere umano come di un corpo abitato da un soffio celeste. Questa notizia mi ha fatto trasalire di gioia perché da tempo la mia spiritualità è orientata da due consigli-ordini che Paolo rivolge ai cristiani: “Non rendete triste lo Spirito” (Ef.4,3); “Non spengete lo Spirito” (1Tess. 5,19). La tristezza dello spirito-soffio mi ha portato all’immagine di un uccello catturato in una gabbia, che sbatte tutto il suo corpo vivacemente sulle sbarre e cade sul fondo triste perché non potrà più tornare allo spazio celeste che è il suo. E il soffio si spenge per sempre per un mucchio di pietre che l’esistente vi ha gettato sopra. Questo indirizzo di spiritualità offre dei vantaggi: il primo, il fatto di essere di una semplicità che dispensa da letture, da scuole, da maestri perché il solo compito lasciato al credente è quello di liberare il soffio per affidarlo ad un altro Soffio potente, sicuro, che lo guida e lo travolge: “Voi non siete più sotto il dominio della carne ma dello Spirito… e vivete secondo la carne, voi morirete, se invece con l’aiuto dello Spirito fate morire le opere della carne, voi vivrete” (Rm. 8). Il secondo dono di questa spiritualità è che al posto di maestri che spesso accumulano pesi sopra altri pesi, potete incontrare un amico che vi aiuti a liberare il soffio dagli intralci che lo tengono schiavo. Vi aiuterà, se il soffio si muove in lui, con libertà. Allora la morte non esiste più. Il solo maestro che noi dobbiamo riconoscere come unico, Gesù, a Nicodemo che gli chiede timidamente di essere il suo direttore spirituale, risponde: “Il vento soffia dove vuole, e ne senti la voce, ma non sai da dove viene ne dove va” (Gv.3,7). Accogliere nel silenzio e meditare queste parole e farle metodo della nostra preghiera e della nostra crescita nell’amore, vuol dire liberarci definitivamente dalla morte. Allora è da adulti aver paura del nulla?

1. “Nutrire la vita”, François Jullien, Raffaello Cortina Editore