da “Oreundici” di novembre 2007
Maria Zambrano, la filosofa spagnola che visse più della metà della sua vita in esilio, definisce l’esistenza come una nascita. Vi sono nascite precedute dalla morte e nascite che si potrebbero definire passaggi a conoscenze o esperienze nuove, approfondimenti di situazioni che fanno dell’esistenza un cammino. Il vangelo ci ha trasmesso il senso dell’esistenza come un rinascere. Nicodemo va di notte a trovare Gesù cercando una proposta che lo liberasse dalla fissità, dallo “stesso”, dalla dipendenza dalla legge. Forse ha colto la novità di questo nuovo predicatore e vorrebbe saperne di più. E Gesù risponde con una proposta enigmatica: rinascere. Ripenso oggi ad un avvenimento della pensatrice spagnola molto simile a quello che io ho vissuto: seguendo un percorso hegeliano vidi con chiarezza che il pensiero si allontanava dall’esistenza, e l’esistenza restava al buio. Questa crisi rappresentò anche per me una morte ed una rinascita: vidi chiaro che dovevo assumere la responsabilità di gestire la mia esistenza. E di lì si snodarono vari eventi, ben conosciuti, che mi portarono al deserto. Nel deserto entrai in uno spazio di tempo che può essere definito molto semplicemente, usando un’espressione popolare: una cosa è parlar di morte, altra è morire. Ma da questa avvenne la vera rinascita caratterizzata soprattutto da una esperienza, la consapevolezza che noi non possiamo amare Dio, possiamo solo accogliere l’amore dalla sua pienezza e con questo innervare la nostra vita rendendola altra. Dalla mia esperienza ho tratto con molta chiarezza che la conversione non è un fatto della mente ma del cuore: è entrare in un’altra forma di vivere. La mia nascita avvenne nella marcia di oltre seicento chilometri nel deserto per giungere a Beni Abbès dove Charles de Foucauld cominciò l’ultima tappa della sua vita come nomade; i suoi diari ci narrano le vicende dure, difficili e insieme illuminate da squarci di luce, di questo lungo viaggio che terminò con la immolazione della sua vita. Parlando di questa vita che noi suoi discepoli ci proponiamo di seguire viene opportuno parlare di trascendenza. Questa parola nasconde un senso assai semplice che vuol dire passare oltre, uscire in qualche modo dall’esistenza abituale per accogliere un progetto di vita nuova. Questa nuova forma di vivere non avviene come un processo naturale della nostra esistenza; si tratta di una svolta reale che ci viene dall’Alto. Questo Alto diventa chiaro e dà la forza che supera ogni comando che riceviamo da qualunque autorità umana. Tale novità non è un lusso, un privilegio ma è la scoperta di una dimensione nuova della nostra esistenza, che viene chiamata a quello sviluppo e a quella pienezza che molti rifiutano lasciandola nel suo stato embrionale. Gesù ci dona una immagine della trascendenza di una ricchezza di significato spesso non raccolto, di cui troviamo il senso nella donna e nella convivenza con i poveri. Nel capitolo 10 di Luca, un capitolo particolarmente laico, Gesù, dopo aver ascoltato la relazione dei settantadue discepoli mandati in missione, e averli premiati: “I vostri nomi sono scritti nei cieli”, ha un trasalimento di gioia: “Ti ringrazio Padre, Signore del cielo e della terra perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Luca 10,22). Questo squarcio di gioia è la rivelazione della trascendenza, dono di Dio, che appare improvvisamente tra i poveri nei quali l’esistenza non può travestirsi di aspetti particolarmente attraenti, sia per ricchezza di cultura, sia per bellezza di forme o esibizioni di lusso. Iteologi chiamati intelligenti possono parlare con profondità della trascendenza, che nel passato è stata spesso oggetto di polemiche; ma rimane una verità controversa che spesso non scende nell’esistenza. La chiesa ci ha trasmesso il nome di alcuni santi come Agostino, Tommaso, Bonaventura che hanno ricevuto la trascendenza come dono riconoscendo che tutto ciò che hanno spe- culato non è che paglia. Gesù denuncia frequentemente quelli che sanno le cose di Dio e ne hanno l’esclusiva: “guai a voi che chiudete il regno dei cieli: voi non entrate e trattenete quelli che vorrebbero entrare” (Matteo 23,12). La trascendenza dei poveri è quella che viene incontro come la gioia di vivere insieme vedendo all’orizzonte una nuova forma più felice di essere. Spesso negli incontri delle comunità di base mi sono sentito avvolto da una gioia che non ho mai provato nei culti liturgici svolti con grande solennità: la gioia che si esprime nelle lacrime della donna non invitata al banchetto di Simone il fariseo. Tornando alla donna a cui ho accennato prima, quasi distinguendola dai poveri generici, vorrei chiarire che nella donna la povertà entra attraverso il suo corpo e questa è una caratteristica particolare della povertà. Infatti è solo il corpo della donna che diventa oggetto di scambio, una forma particolare della schiavitù che non ha cessato e forse non cesserà mai nelle relazioni umane: la donna diventa oggetto di scambio. Ho scritto nel libro Camminando s’apre cammino la rivelazione improvvisa che ebbi grazie ad una frase della donna con cui dialogavo: “tu mi hai fatto sentire donna”. Come la donna non invitata nel banchetto di Simone il lebbroso che rinasce nel suo corpo che muore come oggetto e rinasce totalmente nuovo, come ci viene descritto nella risurrezione della carne. La donna, toccando il corpo di quell’uomo in cui la trascendenza si è fatta carne, si sente rinascere trasformandosi da oggetto in soggetto di amore. E questa è la trascendenza, dono non cercato di Dio all’uomo, che i sapienti e i saggi non possono ricevere. La trascendenza spiegata dai teologi può lasciare l’esistenza fredda, assente, lontana, qualche volta unita a esistenze portatrici di morte. Nella nostra chiesa è molto facile trovare questo duplice senso della trascendenza: i poveri la vivono e non lo sanno; i saggi e gli intelligenti molto spesso la sanno e non la vivono.