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Corpus Domini anno C

Dal Vangelo secondo Luca 9, 11-17

In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure.
Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta».
Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini.
Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti.
Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla.
Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

Omelia di Don Carlo Molari

E’ un episodio molto significativo, questo della moltiplicazione dei pani, e forse è l’unico miracolo che è raccontato da tutti e quattro gli evangelisti; anzi, in due evangelisti c’è una seconda moltiplicazione che alcuni pensano sia lo stesso racconto che è stato riportato due volte, raccolto da due tradizioni diverse. Ma questo è secondario. Però è un miracolo che ha colpito molto gli apostoli per il valore che ha acquistato poi alla luce dell’ultima Pasqua di Gesù, quando Gesù prese il pane, lo spezzò dopo averlo benedetto come quel giorno, ma poi disse: “Questo è il mio corpo, dato per voi”, come ci ricordava Paolo nella seconda lettura. Qui sta tutto il valore simbolico di quel gesto, altrimenti sarebbe passato in secondo piano, come uno tra gli altri miracoli compiuti da Gesù.

Il miracolo ha due aspetti: il fatto che con i pochi pani che avevano tutti furono saziati e la sollecitazione che il gesto di Gesù ha costituito per la gente, perché altri certamente avevano portato qualcosa e l’hanno messo a disposizione, così che tutto è diventato comune. Quindi al gesto straordinario compiuto da Gesù si è unito un miracolo ancora più grande: quello della condivisione, per cui si è realizzata una forma nuova di comunione che poi diventerà, nelle prime comunità cristiane, caratteristica dell’avvio di quella che – con un termine greco che è diventato uno dei termini classici delle prime comunità cristiane – è stata chiamata la koinonia, cioè la comunanza di beni, la comunione. Non per niente noi nell’eucarestia celebriamo poi la comunione, cioè la messa in comune di ciò che si ha.

Ma per l’eucarestia questo aspetto non si riferisce semplicemente ai beni che possediamo, ma molto di più alla comunicazione della vita. Certo, la comunicazione della vita avviene in tutte le situazioni anche con la comunicazione dei beni, anche del pane che serve per vivere. Ma è molto più ampio l’ambito della comunicazione della vita e richiede non solo l’offerta dei beni, ma richiede l’amore che l’accompagna. Perché l’offrire i beni come tali non è sufficiente, è necessario che il gesto sia accompagnato dall’amore, perché faccia crescere le persone: non semplicemente le faccia mangiare, ma le faccia crescere come persone. Un’offerta di beni che non rispetti la dignità delle persone diventa un atto negativo. L’offerta di beni deve essere quindi sempre accompagnata dall’amore e dalla volontà di offrire vita.

Sono quindi due i significati che voglio mettere in luce, che sono emersi anche martedì sera, in ordine all’eucarestia che oggi celebriamo: la comunicazione di vita che siamo chiamati a compiere e il pane spezzato, appunto, il pane spezzato che è il corpo di Gesù, che è la sua morte. Paolo lo diceva con chiarezza nella lettera ai Corinti: “Ogni volta che spezziamo il pane ci raccogliamo a ricordare la sua morte”. E a questo ricordo noi oggi uniamo il ricordo della morte dei nostri amici che ci hanno accompagnato in questo cammino.

Cosa vuol dire ricordare la morte di Gesù e di coloro che ci hanno preceduto? Significa cogliere il valore dell’amore che Gesù ha esercitato anche nella morte: “li amò sino alla fine”. Che vuol dire non solo ‘fino alla morte’, ma ‘fino a morirne’, nel senso che l’amore è stata la ragione della sua morte. Perché Gesù avrebbe potuto ritirarsi. Quando ha intravisto dove l’avrebbe condotto la fedeltà all’annuncio del regno a cui era interessato (il vangelo che abbiamo letto cominciava appunto “Gesù andava predicando il regno”) si è interrogato se continuare e come continuare. Ha cambiato anche metodo, ha riflettuto, ha pregato a lungo e poi ha deciso di salire a Gerusalemme. Luca proprio sottolinea con chiarezza questa decisione (9, 53-54): “decise risolutamente di salire a Gerusalemme”. Quella decisione è stata la decisione della fedeltà. E così certo ha suscitato le reazioni, con questa sfida che egli lanciava.

Ma perché celebriamo una morte che è il fallimento di una proposta, dal momento che è il rifiuto di accogliere un messaggio? Perché attraverso quel rifiuto e quindi quella morte, vissuta nella fedeltà dell’amore (perché questo è il segreto), Dio ha avviato una nuova tappa della storia dell’umanità, cioè ha espresso una potenza nuova, ha donato uno spirito nuovo. Potremmo dire: c’è stato un salto qualitativo nelle dinamiche umane, nei rapporti, nella comunione che gli uomini potevano realizzare. Per questo i cristiani si sono trovati nella necessità di usare un termine nuovo, il termine ‘agape’, per indicare i loro rapporti. E cominciarono a viverlo con una espressione se volete esagerata, o esasperata, o radicale, che non è stata poi continuata così come aveva cominciato: la condivisione reale dei beni, la koinonia, che indica chiaramente qual è il traguardo, quali sono le dinamiche che sono state messe in moto dalla forza dello Spirito.

Man mano che la società si è sviluppata, questo tipo di comunione, la koinonia, è cresciuta sempre di più. Certo, ci sono stati momenti di decadenza, ci sono involuzioni continue, ma le esigenze crescono sempre di più, è diventata legge per molti aspetti. Pensate per esempio tutto il sistema delle pensioni, dell’assistenza sociale, che sono espressioni di condivisione stabilite per legge, ma che riflettono una tensione interiore da cui devono essere accompagnate queste leggi, perché altrimenti tutto decade, diventa ancora strumento di egoismo. L’egoismo infatti ritorna sempre: tutti nasciamo piccoli e cominciamo sempre a vivere i rapporti in modo possessivo, con la difesa dei nostri piccoli interessi e quindi il ritorno di questi meccanismi è continuo, non possiamo dire: “E’ iniziata una nuova tappa, quei meccanismi sono scomparsi”, No, riappaiono, necessariamente riaffiorano, perché le generazioni riprendono il cammino. E anzi, più gli ideali di condivisione, di accoglienza delle diversità ecc. che vengono realizzati sono esigenti, più le reazioni di chiusura sono forti. E’ sempre così: ad ogni stimolo c’è una reazione: uguale e contraria a livello fisico, spesso superiore a livello psichico, perché raccoglie tutte le reazioni del passato. Nel piano spirituale poi intervengono altre componenti moltiplicatrici, esponenziali, potremmo dire. Per questo poi la santità riesce sempre, anche se è minoritaria, a fare breccia e ad aprire nuove strade.

Quindi celebrando l’eucarestia noi ricordiamo proprio questo processo di comunione che si realizza, che deve realizzarsi, in forme sempre più profonde, ma che richiede comunione, condivisione, koinonia; che richiede testimonianze efficaci, cioè luoghi di invenzione. Perché le forme nuove di comunione, di condivisione, non piovono dal cielo, non vengono inventate dai politici: i politici rincorrono la storia che va veloce, ci vogliono degli ambiti di vita dove si inventano le forme nuove, cioè dove nascono gli atteggiamenti spirituali corrispondenti alle forme nuove di condivisione necessaria. “Date voi da mangiare”. Quella parola di Gesù è strana, se volete, ma indica una legge fondamentale: “Date voi da mangiare. Nessun altro può dare da mangiare, se non voi. Non può venire dal cielo, se voi non vi aprite a quella forza creatrice per cui diventate capaci di dare il cibo anche se non ne avete o ne avete poco. Condividete quel poco”.

Nella storia della Chiesa ci sono episodi analoghi di questo tipo. Per esempio nella vita del Cottolengo (e anche nella vita di altri santi della carità, per esempio di S. Vincenzo de’ Paoli) ci sono episodi proprio di questo tipo: che il pane nella madia cresceva sempre, man mano che veniva distribuito. Quello del Cottolengo è all’inizio del nostro secolo, non è che sia molto remoto. E’ la forza creatrice dell’amore, ma che passa attraverso l’esperienza di morte.

Questi due elementi sono così connessi, che nell’Eucarestia noi insieme celebriamo la morte, la fedeltà nell’amore e la comunione nuova che siamo chiamati a realizzare, in virtù appunto dello Spirito che il Risorto ci dona, se lo accogliamo, se entriamo in queste dinamiche, se non celebriamo solo esteriormente il rito.

Che responsabilità abbiamo assunto raccogliendoci insieme a pregare, facendo memoria di Gesù morto e risorto! Che responsabilità! Lo ricordava Paolo a chi celebrava indegnamente. E celebrare indegnamente non vuol dire essere peccatori, vuol dire accontentarsi dell’esteriorità, non rendendosi conto di ciò che è in gioco, del mistero della vita che è in gioco. Che responsabilità abbiamo assunto! Per questo io credo che ogni volta dobbiamo renderci conto e vivere questa consapevolezza delle nostre infedeltà. Cominciamo ogni eucarestia in questo modo. Ma deve diventare un momento significativo, illuminante. Il cielo si squarcia e una luce irrompe nelle tenebre della nostra esistenza.

Allora possiamo poi celebrare l’eucarestia consapevoli di essere chiamati a una comunione di vita, a spezzarci il pane reciprocamente per crescere come figli, figli di Dio chiamati a una dignità che non riusciamo ancora a riconoscere, ma che intravediamo nello splendore della gloria di Cristo, nel suo destino eterno che può diventare anche il nostro destino.

Chiediamo allora al Signore di vivere oggi questa eucarestia con particolare intensità, consapevolezza, coinvolgimento, in modo che il gesto simbolico che faremo alla fine, il bruciare le intenzioni delle nostre preghiere, esprima realmente l’impegno che assumiamo qui, gli uni di fronte agli altri, di portare a compimento tutto il bene che è stato celebrato e di portare il peso del male che è stato ricordato qui spesso nelle preghiere. Chiediamo al Signore questa lucidità interiore, per fare dell’eucarestia che celebriamo un sacramento di vita, un augurio per il nostro cammino di questi mesi.