Dal vangelo secondo Giovanni 14, 15-16; 23b-26
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre.
Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».
OMELIA DI DON CARLO MOLARI
La solennità di oggi rappresenta per gli apostoli un momento culminante di un processo, potremmo dire il traguardo di un cammino; ed è il paradigma del traguardo che anche noi dobbiamo raggiungere. E non è un traguardo posto alla fine della vita, ma posto nella maturità della nostra persona. Quindi è un traguardo che possiamo raggiungere in età diverse, secondo le circostanze, le esperienze, la fedeltà. Sollecita perciò un esame oggi la liturgia, una consapevolezza, una presa di coscienza: a che punto siamo noi in questo processo?
Vediamo prima in che consiste il cammino che gli apostoli hanno fatto, che è il cammino poi riassunto nella festa di oggi. Come vi ho detto all’inizio, la festa di oggi ha subito nel mondo ebraico dei cambiamenti: prima era una festa delle primizie agricole; poi è diventata una festa storica, la festa della legge, dell’alleanza; per i cristiani s’è aggiunto un altro significato storico. Quindi è un vero processo riassunto in questa eucarestia. E poi possiamo prolungarlo e considerare le varie tappe della storia della Chiesa, perché ci sono stati in questo senso diverse pentecoste, cioè diversi momenti di svolta, di irruzione dell’azione dello Spirito, che ha condotto a forme nuove di fedeltà evangelica – o possiamo dire a forme nuove di santità. Perché il processo continua ancora, l’umanità non è giunta ancora alla forma compiuta di perfezione. Senza distinguere tra perfezioni umane e perfezioni soprannaturali: sono perfezioni umane, tutte e sole perfezioni umane, che però rappresentano novità rispetto alle forme precedenti di vita. Vediamole in questo cammino di rinnovamento non semplicemente morale, ma proprio entitativo, ontologico, cioè proprio di qualità vitali.
Vediamo allora prima di tutto il cammino di rinnovamento degli apostoli.
Gli apostoli avevano seguito Gesù con delle prospettive molto diverse da quelle con cui poi diventeranno testimoni, con degli ideali che noi adesso non sappiamo ricostruire bene, perché non ne abbiamo la testimonianza. Noi conosciamo solo la testimonianza che hanno dato dopo, ma della prima fase abbiamo solo dei piccoli indizi, come la resistenza posta alla predicazione di Gesù, il rimprovero di Pietro a Gesù quando si richiamava alla messianicità del Servo, il tradimento di Giuda, la fuga nei momenti decisivi della passione di Gesù. Insomma sono tutti piccoli segni che indicano chiaramente che gli ideali che essi perseguivano in quel tempo, cioè quando hanno lasciato il loro lavoro e hanno cominciato a seguire Gesù, erano molto diversi da quelli che poi professeranno come testimoni del Vangelo.
E’ questa differenza che ci consente di capire il cammino che hanno compiuto. E l’hanno compiuto lungo tutta l’esistenza di Gesù. Ma quando Gesù è morto ancora non erano diventati testimoni del Vangelo, anzi, erano ancora nella condizione precedente, per cui attendevano solo di tornare a casa, per mettere fine a quell’avventura terminata così drammaticamente, contro tutte le loro attese, le loro aspettative. Per questo erano chiusi nel Cenacolo, per paura.
Poi è cominciata l’esperienza che abbiamo ricordato in queste sette settimane dalla Pasqua, perché ‘pentecoste’ è un termine che deriva dal greco che vuol dire ‘cinquantesimo giorno’, perché cadeva appunto cinquanta giorni dopo la Pasqua. In quei cinquanta giorni gli apostoli e i discepoli di Gesù hanno compiuto un’altra tappa del cammino di fede. Questo già in rapporto al Dio rivelato da Gesù, e quindi già con un cambiamento profondo: cominciavano già a vivere in modo diverso. Anzi, vi ho già detto che nel racconto di Giovanni non c’è il periodo dalla Pasqua alla Pentecoste come momento decisivo del cammino di fede, perché nel racconto di Giovanni il dono dello Spirito avviene il giorno stesso della Pasqua e quindi il rinnovamento è subito cominciato. Ma è cominciato, non è finito. Luca sottolinea il momento in cui questo cammino è giunto a maturità, è giunto ad un traguardo decisivo.
Cosa rappresenta questo momento di passaggio? Potremmo dire che è la maturità personale della fede. Cioè non vivono più la fede per induzione dell’ambiente, della vicinanza di Gesù, delle esperienze che stavano compiendo quando incontravano Gesù, quando si incontravano tra di loro ricordando gli eventi precedenti. Il cammino compiuto aveva consentito un’interiorizzazione dell’azione di Dio, cioè degli eventi vissuti, la memoria era diventata struttura della loro esistenza. Avevano interiorizzato così l’azione di Dio attraverso Gesù, da essere in grado di camminare in modo autonomo, personale. Autonomo non vuol dire indipendente dalle offerte altrui, vuol dire con la capacità del controllo delle proprie dinamiche. Non è un’indipendenza totale, perché noi dipendiamo sempre dalle testimonianze degli altri e dalle offerte di vita degli altri, non diventiamo mai autosufficienti: diventiamo autonomi, nel senso che interiorizziamo in un modo personale, consapevole, libero, per cui non siamo più condizionati in modo assoluto dalle circostanze in cui ci troviamo. Siamo in grado di andare a cercare anche altrove offerte di vita e siamo in grado di vivere situazioni di assenza, di carenza, di lontananza.
Gli apostoli e i discepoli di Gesù hanno cominciato proprio questa fase della lontananza. Domenica avevo sottolineato questo punto: “E’ bene per voi che me ne vada, altrimenti non verrà lo Spirito”. Non è semplicemente una condizione esteriore, il dire: “Non poteva venire lo Spirito perché c’era Gesù”. Non è questo: è che loro non potevano giungere a quella forma nuova di vita, di fede, di accoglienza dell’azione di Dio, se restavano dipendenti dalla presenza di Gesù. E’ una forma reale di maturazione nella fede. La distanza, la lontananza, il non essere più dipendenti dalla sua presenza, ha condotto chi è stato in grado di farlo a fare un passo ulteriore. Può darsi che ci siano stati dei discepoli che si sono dispersi, noi non lo sappiamo, perché quello che conosciamo è quello che si è sviluppato poi all’interno della Chiesa; ma non è escluso che altri discepoli, lontani da Gesù, non abbiano potuto percorrere il cammino di fede e si siano dispersi, siano tornati alle loro case, al loro modo di pensare precedente e non abbiano più seguito la via di Gesù. In ogni caso, noi conosciamo l’avventura di quelli che invece hanno percorso la nuova tappa della vita di fede.
E’ opportuno fermarci su questo punto, perché anche per noi, per tutti noi, ci sono queste tappe del cammino di fede e tutti siamo chiamati a giungere al momento in cui siamo autonomi nel cammino di fede, cioè siamo in grado di vivere tutte le situazioni nell’orizzonte della fede e di viverle in modo personale, consapevole e nella libertà. Per cui non siamo più dipendenti in modo assoluto dalle diverse circostanze, siamo in grado di andare a cercare altrove i riferimenti, ma soprattutto di vivere anche situazioni in cui c’è assenza totale di offerte di vita, assenza totale di testimonianze di fede. Le situazioni appunto radicalmente negative, che possiamo vivere introducendo noi l’azione di Dio, diventando noi testimoni.
La maturità della fede, cioè quando si giunge a vivere la fede in modo personale, è il momento in cui si diventa testimoni, cioè si è in grado di offrire indicazioni di vita ai fratelli e di “rendere ragione della speranza che portiamo nel cuore”, come diceva la bella formula della I Lettera di Pietro (3,14). Il rendere ragione non è semplicemente ragionare, non è dire delle parole. Rendere ragione è mostrare. Questo è essenziale per la testimonianza.
Lo sottolineo perché negli ultimi secoli c’è stata una certa insistenza da parte delle nostre comunità – anche per l’influsso della cultura intellettualista, illuminista, che caratterizzava l’Occidente e in particolare l’Europa – sulla dottrina, quindi sulla interpretazione, sulle idee, pensando che siano il dato costitutivo. In realtà la testimonianza è qualcosa di più radicale: è proprio l’ostensione della qualità di vita a cui lo Spirito conduce, a cui la forza creatrice di Dio conduce chi si apre in modo personale, in modo autonomo, appunto.
Gesù, nel Vangelo di Giovanni che abbiamo letto, esprime questo momento di passaggio con una formula molto significativa: “Verremo e faremo dimora presso di lui”. Cosa indica questo termine? Indica la continuità della presenza. Ma la presenza non da parte di Dio, perché l’azione di Dio è sempre presente. La presenza implica un rapporto, una relazione, e la relazione implica due elementi: non c’è presenza se c’è uno solo, la presenza implica relazione in atto. Allora il prendere dimora non è semplicemente un’azione da parte di Dio, questa c’è sempre. Il prendere dimora richiede che il credente prenda coscienza di questa azione e resti in questo orizzonte sempre. Altrimenti non è dimora, è una residenza momentanea, è un passaggio, è una tenda che viene piantata qua e là. Invece “prenderemo dimora” richiede la consapevolezza e la permanenza in questa consapevolezza, che è uno dei traguardi fondamentali della vita spirituale: il vivere costantemente alla presenza di Dio, l’essere consapevoli di qualcosa che si sta sviluppando nella nostra esistenza, in tutte le situazioni, in tutte le circostanze, positive o negative, sempre, per cui siamo sempre in grado di crescere come figli di Dio. L’apostolo Paolo nella prima lettura ce lo ricordava: siamo eredi, ma perché siamo diventati figli, o stiamo diventando figli. Questo processo che si sta realizzando deve diventare consapevole. Allora siamo anche testimoni.
Dicevo che non è sufficiente dire delle formule, insegnare delle dottrine, per condurre a questa maturità di fede. Certo, è sempre necessario riflettere su ciò che viviamo e quindi adeguare le nostre formule, ma non basta questo, è necessario pervenire a questa consapevolezza e vivere la presenza, così che si realizzi quello che dice Gesù in questo brano del Vangelo di Giovanni: “Prenderemo dimora presso di lui”.
Quando Paolo ai cristiani di Corinto richiama la sua missione, nel capitolo secondo della sua prima lettera, dice: “Quando io venni in mezzo a voi, non mi presentai con parole di sapienza umana, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza degli uomini, ma vi mostrai la potenza di Dio e del suo Spirito”. Come si mostra la potenza di Dio? Non facendo i miracoli, ma vivendo in modo da manifestare la qualità umana a cui lo Spirito conduce, la ricchezza di vita a cui la potenza di Dio conduce chi si affida a Lui. Per questo non si può bluffare, non si possono dire semplicemente parole o usare delle formule, per illudersi di testimoniare la fede. Arriverà un momento in cui tutto crolla, finisce tutto, certamente, perché sono costruzioni umane.
Questo vale in tutte le relazioni che noi viviamo, anche nelle relazioni di famiglia. Pensate la testimonianza che i genitori sono chiamati a dare ai figli, o i coniugi tra loro: devono a un certo momento diventare testimoni di Dio l’uno per l’altro. Non può essere all’inizio della vita matrimoniale, questo, richiederebbe un lungo cammino precedente, abitualmente non lo si può pretendere, anche se di per sé è possibile; ma deve venire il momento in cui uno diventa testimone di Dio per l’altro. E così in ordine ai figli, agli amici… Diventa un cammino comune.
E’ significativo che la Pentecoste rappresenti proprio l’inizio della testimonianza non dei singoli apostoli, ma l’inizio della testimonianza della Chiesa. In fondo potremmo dire per un certo verso che la testimonianza della Chiesa è cominciata con la Pentecoste. Di per sé la Chiesa è cominciata prima, con la croce (cioè con la morte e la resurrezione) o se volete ancora con l’elezione dei Dodici, ma la croce è il momento decisivo in cui avviene il passaggio. Ancora però non era una comunità capace di testimonianza. Solo dopo questo cammino che viene riassunto da Luca nei cinquanta giorni che vanno dalla Pasqua alla Pentecoste ne diventano capaci.
Sono numeri simbolici ma significativi, soprattutto per noi, che certo non possiamo in cinquanta giorni pervenire a questa maturità di fede, ma in ogni caso prima della morte, o almeno nella morte, dovremmo giungere a essere capaci di questa testimonianza. Dico ‘almeno nella morte’ perché la morte, come ricordavo già domenica, ci chiederà di essere testimoni della vita, proprio lì mentre l’abbandoniamo. Non ci viene sottratta, perché se ci venisse semplicemente sottratta non saremmo testimoni di vita, ma saremmo testimoni della morte. Per essere testimoni di vita nella morte occorre che siamo noi a offrirci, ad abbandonarla, fidandoci così dell’azione di Dio e certi così della nostra identità definitiva di figli, da essere in grado di fare il passo consapevole, nella libertà.
E’ quindi il tragitto della nostra esistenza, il cammino di fede che siamo chiamati a compiere.
Questa qualità di vita che diventa ostensione nei secoli ha avuto caratteristiche diverse, però sempre orientata a forme nuove di comunione tra gli uomini. Il simbolo delle lingue è molto chiaro in questo senso. Ebbene, questo simbolo ha avuto applicazioni molto diverse nei secoli: l’invasione dei barbari con le divisioni nuove della terra, con gli incontri tra i diversi popoli …
Oggi certamente c’è una forma nuova, proprio inedita, che è legata alle forme della comunicazione, alle forme della globalizzazione, che richiedono qualità spirituali prima mai richieste agli uomini: qualità spirituali, cioè quell’azione dello Spirito che deve diventare qualità umana. Per cui celebrare la Pentecoste non è semplicemente ricordare un evento del passato o degli eventi successivi: è vivere oggi un’esperienza di novità, consapevoli che ci sono qualità spirituali inedite che debbono essere accolte per vivere questa stagione della storia, proprio di comprensione delle altre culture, ma anche delle altre generazioni. Pensate per esempio allo sconcerto che molte volte in questi tempi gli adulti esprimono nei confronti delle giovani generazioni, dei gruppi di adolescenti, delle bande di adolescenti, a volte, che distruggono, che hanno espressioni incomprensibili, secondo i criteri delle persone adulte. Si tratta di entrare in questo processo e rendersi conto delle qualità spirituali richieste perché questi indizi di un male della società diventino criteri di conversione per noi. Non possiamo infatti pretendere che siano gli adolescenti a convertirsi: gli adolescenti stanno avviandosi alla vita e a volte lo fanno in modo rozzo, inconsulto, disordinato. Ma noi adulti dobbiamo manifestare le qualità nuove di vita, le forme di spiritualità che consentano alle nuove generazioni di inserirsi in questo processo in modo armonico.
E’ un compito quindi che oggi come comunità ecclesiale ci viene affidato, per continuare quell’avventura che cominciò quel giorno in un modo pubblico, comunitario; cominciò quel giorno, quando i discepoli, uniti in preghiera insieme a Maria, furono travolti da una forza nuova e vissero l’esperienza della prima Pentecoste cristiana. Era circa l’anno 30. Da allora sono passati molti secoli, ma l’avventura ancora continua e forse le novità più grandi devono ancora venire.