Dal Vangelo secondo Luca (Lc. 18, 9-14)
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Omelia di don Carlo Molari del 24 ottobre 2004
Prima di chiarire e approfondire un po’ il messaggio di questa parabola di Gesù, credo sia necessario richiamare brevemente la connotazione diversa dei due termini ‘fariseo’ e ‘pubblicano’ nella nostra lingua rispetto al tempo di Gesù, perché la forza della parola è a volte molto più potente delle nostre conoscenze e ci travolge, per cui ci induce dei significati che non corrispondono alla realtà; e neppure a quello che noi già sappiamo, perché il gioco delle connotazioni verbali è così sottile che noi spesso non ce ne rendiamo conto.
E allora permettete che io vi ricordi una cosa che già sapete: che il termine ‘fariseo’ oggi è offensivo, perché se noi diciamo: “sei un fariseo” a un altro vogliamo dire che è falso, che si accontenta dell’esteriorità, che vive della superficie, che in ambito religioso si accontenta del rito e non ricerca la sostanza. Al tempo di Gesù ‘fariseo’ non voleva dire questo, anzi, indicava la persona più onesta, più fedele alla legge che c’era a quel tempo. Il gruppo dei farisei, o meglio, la setta (il termine greco significa questo non in senso peggiorativo) era sorto circa 150 anni prima di Gesù ed era sorta proprio per affermare la fedeltà alla legge, alla legge mosaica e alla legge tradizionale; perché i farisei, a differenza di altri, sostenevano che oltre alla legge mosaica, ai profeti, ai libri sapienziali, c’era anche una legge orale, un complesso di dottrine che loro si trasmettevano. Erano quelle tradizioni che Gesù non considerava, anzi, in un certo senso disprezzava, perché le chiamava “tradizioni di uomini”che non venivano da Dio. I farisei erano quindi considerati persone molto fedeli alla legge e lo erano. Quindi quando ascoltate il termine ‘fariseo’ mettetevi in questa prospettiva, altrimenti non comprendete bene l’opposizione che Gesù pone nella parabola tra il fariseo, che è giusto, che dice le cose vere, pregando, ma che è presuntuoso, come adesso vedremo.
Il termine ‘pubblicano’ è un termine più tecnico, che oggi nella nostra lingua non utilizziamo – non è che diciamo ad un altro: “tu sei un pubblicano” – però lo utilizziamo quando ci riferiamo al tempo di Gesù e agli ebrei. I pubblicani rappresentavano i traditori di quel tempo, perché collaboravano coi romani. (…) e raccoglievano le tasse per loro conto. Voi sapete che quando si tocca il tasto delle tasse c’è una particolare sensibilità di reazione da parte della gente, per cui dicendo ‘pubblicano’ la gente intendeva traditore, peccatore, avaro, a volte.
Questi sono i personaggi della parabola. Adesso veniamo al messaggio, che è il dato più importante per noi, perché ci riguarda direttamente. Il messaggio riguarda la presunzione di coloro che si ritengono buoni e perciò giudicano gli altri come inferiori e li disprezzano. Sono due atteggiamenti connessi tra di loro. Quello fondamentale è la presunzione.
In che consiste questo atteggiamento di presunzione? Vediamolo prima in modo positivo e poi in modo negativo.
In modo positivo consiste nell’attribuire a sé il bene che si compie, nella convinzione di essere il principio del bene che facciamo, della verità che diciamo, della giustizia che realizziamo. Questa presunzione è considerata da Gesù infondata, falsa, cioè pone l’esistenza in una condizione di falsità di vita, perché non c’è nulla nella nostra vita che non ci viene continuamente donato e che quindi ci appartiene in proprio: ci appartiene solo in quanto l’accogliamo, consapevoli che non è nostra qualità, che non è nostro merito, che non deriva dalla nostra realtà, ma ci è offerto, ci è consegnato. Quindi, in positivo, è questa consapevolezza di essere creature che Gesù vuole insegnare ai suoi: tutto ci viene continuamente offerto, consegnato, donato.
Noi arriviamo con facilità ad avere questa consapevolezza per quanto riguarda gli inizi, cioè siamo consapevoli che abbiamo cominciato per dono di altri, che agli inizi tutto ci è stato donato. Fin qui ci arriviamo, perché è un dato così immediato che non possiamo negarlo. Anche il fariseo nella parabola esprime questa sua convinzione, perché ringrazia Dio: “Ti ringrazio, io non sono come gli altri uomini…”. L’errore sta nel fatto che il dono di Dio veniva pensato solo agli inizi, in quanto era stato creato, in quanto era nato in un determinato tempo; ma da quel momento, dagli inizi, dalla nascita in avanti, lui era il soggetto, era lui che era fedele a sua moglie, lui che osservava le leggi, lui che faceva i digiuni: “Io pago le decime, io sono fedele a mia moglie, io non sono come gli altri uomini”.
E’ questo punto che è falso e costituisce quella che Luca nell’introduzione alla parabola chiama la presunzione di quest’uomo, o che Gesù chiama la sua mancanza di umiltà. Ricordate infatti la formula finale: “Chi si umilia sarà esaltato, chi si esalta sarà umiliato”. Questo è cioè l’atteggiamento di esaltazione, come lo chiama Gesù, di presunzione, cioè di attribuzione a sé la ragione del bene che fa, della verità che dice, dell’osservanza della legge. Questa è la falsità della vita. E siccome quest’uomo, come Gesù lo presenta, viveva in questo orizzonte, in questa convinzione, tutta la sua vita si svolgeva nella falsità.
Prima di vedere qual è invece l’atteggiamento positivo che Gesù vuole invece indurre e insegnare, facciamo una breve riflessione per noi. Perché io credo che non c’è nessuno di noi che non abbia vissuto lungo tempo almeno in questo atteggiamento o che forse non ci viva ancora, soprattutto le persone più giovani. Ma spesso capita anche per noi vecchi; e se questo atteggiamento capita per noi vecchi è molto più colpevole e molto più responsabile, perché camminando nella vita la presunzione deve scomparire per giungere alla verità della vita. Altrimenti non siamo in grado di morire, perché occorre vivere nella verità, cioè consapevoli del nulla che siamo, per essere capaci di morire. Lo ripeto, questo, perché è una formula che ogni volta nel martedì trova molte reazioni; cerco di spiegarla, perché è l’aspetto fondamentale per giungere a sconfiggere la presunzione.
Cosa vuol dire che noi siamo nulla? Non vuol dire che in noi la vita non si esprima, che non si esprima con l’intelligenza, che non si esprima col servizio agli altri, con la dedizione, con l’amore… No, non vuol dire che non si esprima. Vuol dire che è la vita che si esprime, che non siamo quindi noi buoni, che non siamo noi intelligenti, che non siamo noi giusti: la vita in noi cerca di diventare giustizia, di diventare verità, di diventare offerta di vita ai fratelli. Ma la vita è prima di noi ed è più grande di noi. O, in termini religiosi: è l’azione creatrice di Dio che in noi cerca di diventare verità, bene, offerta di vita ai fratelli. Noi introduciamo il limite in tutto questo, cioè da parte nostra impediamo che la forza della vita assuma delle caratteristiche più elevate, più profonde, più ampie. Per cui il dono che attraverso di noi la vita vuole consegnare agli altri – e continuamente, perché siamo in questa rete di comunicazione e di flusso di vita – viene inquinato dal nostro egoismo, dalla preoccupazione per noi stessi, dall’essere centrati su di noi. Viene inquinato, viene ridotto, per cui siamo in questo senso peccatori: noi di parte nostra siamo peccatori, anche se non trasgrediamo una legge, anche se non odiamo gli altri, anche se siamo fedeli alla moglie, anche se osserviamo la legge. Questo è il punto che difficilmente acquisiamo.
In questo senso, per quello che siamo noi, siamo nulla, cioè non siamo il bene che la vita ci offre. Attraverso di noi, certo, la vita si esprime e diventa dono per i fratelli, diventa verità da consegnare, questo nessuno lo deve negare. Ma il punto è che non siamo noi il principio e la fonte, non è nostro merito tutto questo. Quello che noi introduciamo anzi è l’elemento negativo, per cui diventa falsa ogni affermazione che facciamo relativa alla nostra giustizia, alla nostra bontà, alla verità che proclamiamo. Diventa falsa, ci pone in una condizione di falsità
Questo è l’insegnamento di Gesù. E’ difficile, soprattutto per i più giovani, che sono nel processo di identificazione e quindi di acquisizione della sicurezza di sé. E’ giusto, questo, ma è una sicurezza che non viene dalla nostra bontà o dalla nostra fedeltà, è una sicurezza che viene dalla fedeltà di Dio in noi. Per questo affermare che siamo nulla non conduce a un disprezzare Dio in noi e quindi a uno stato di pessimismo, di sfiducia, a dire: “Ah, io non valgo nulla”. No, non è questo. Se noi lo facciamo in rapporto al dono di Dio in noi siamo ugualmente falsi, la nostra è una falsa umiltà, perché dobbiamo riconoscere il dono di Dio in noi; ma dobbiamo riconoscere che è dono di Dio e che noi non abbiamo nessun merito di questo, anzi, che noi introduciamo il limite e per questo siamo peccatori. Perché chi di noi accoglie pienamente il dono di Dio e non lo inquina? Chi di noi compie un atto di amore e quando poi lo esamina non scopre che c’era dell’egoismo, una ricerca di se stessi, del proprio piacere, del riconoscimento da parte degli altri? Chi di noi compie un gesto di servizio per i fratelli e poi esaminando l’atto che ha compiuto non scopre che c’era sotto dell’interesse, della ricerca di se stessi? Questo è il limite che noi introduciamo nell’azione, per cui siamo peccatori anche quando non abbiamo un elenco di peccati da numerare.
Capite allora perché i santi, man mano che giungevano a delle forme di spiritualità elevata, avevano una consapevolezza sempre maggiore di essere peccatori e alla fine giungevano a dire che erano più peccatori di tutti? E avevano ragione, perché i doni che avevano ricevuto erano così grandi, che il loro peccato si era insinuato in tutti i gesti che compivano. Noi che abbiamo rifiutato tanti altri doni del Signore (e in quello siamo peccatori conclamati), in quei piccoli doni che riceviamo in questo senso siamo meno peccatori dei santi, perché introduciamo minor limite, dato che il dono è piccolo, l’altro non l’abbiamo accolto, l’abbiamo rifiutato. Quindi si capisce perché ad un certo momento i santi dicevano in verità “Io sono il più grande peccatore”.
Ora, che consapevolezza abbiamo noi di questa nostra condizione? Ogni volta che noi ci raccogliamo in preghiera dovremmo proprio esercitarci in questo duplice atteggiamento spirituale. Da un lato il riconoscimento che tutto ciò che c’è in noi è dono, puramente dono, dall’altra la consapevolezza che noi introduciamo il limite nel dono ricevuto.
Teniamo anche presente che il dono continuamente ci viene rinnovato. E che tra l’altro è precario, proprio perché è dono, perché può terminare il giorno dopo. Il dono della vita può svanire di colpo, senza che noi neppure ce ne accorgiamo. Ad un certo momento le verità che prima avevamo scoperto non le ricordiamo neppure più e dobbiamo andare a rivedere gli appunti o i file del nostro computer per individuare quelle intuizioni che ci sembrava fossero delle cose straordinarie; erano offerte di vita, era la verità che cercava di insinuarsi attraverso il nostro groviglio interiore e invece pensiamo che quella sia la cosa suprema, perché noi l’abbiamo pensata, che sia il gesto più ricco perché l’abbiamo compiuto noi, che sia un servizio straordinario perché l’abbiamo fatto noi.
Esaminiamoci su questo punto, perché la presunzione ci accompagna. E qual è il segno chiaro di questa presunzione? C’è un segno infallibile, che Gesù ha espresso chiaramente nella parabola: è il giudizio che noi abbiamo degli altri. Se fate un piccolo esame, se guardate come valutate le persone con cui vivete i rapporti, voi troverete sempre che c’è un piccolo aspetto di superiorità che noi rivendichiamo: vediamo le cose dall’alto rispetto agli altri. E se qualcosa non possiamo negarlo, delle qualità degli altri, in noi sorge l’invidia, sorge una forma di gelosia sottile, che è l’altro volto dello stesso atteggiamento. I giudizi che noi diamo, gli atteggiamenti che noi abbiamo nei confronti degli altri, sono il riflesso di questa nostra presunzione, dell’essere convinti di essere noi buoni, intelligenti, superiori agli altri, osservanti della legge e così via.
Diciamolo in positivo allora, perché Gesù lo dice con un termine: l’umiltà. Non pensate che quando Gesù dice: “Chi si umilia sarà esaltato, chi si esalta sarà umiliato” sia una punizione o un premio di Dio: no, è l’azione di Dio che, accolta, fiorisce in noi. Perché diventa nostra la qualità. Questo è il punto che sconfigge quella paura di cui prima parlavo, cioè che affermare che noi siamo nulla ci conduca ad un disprezzo di noi stessi. No, ci conduce all’esaltazione di noi, ma alla vera esaltazione di noi, cioè della qualità di figli, della ricchezza di vita che in noi fiorisce quando riconosciamo la nostra condizione di creature. Diventiamo figli, assumiamo un nome scritto nei cieli, un nome eterno. Questa è la nostra dignità, quella è la nostra grandezza. Non è un disprezzare la vita, non è un rifugiarsi in un atteggiamento di pessimismo, di sentimento di inferiorità nei confronti degli altri. No assolutamente, è l’opposto, perché questo è il modo per raggiungere la nostra identità filiale: è quello di riconoscere che noi da parte nostra siamo nulla, ma Dio è tutto e può diventare tutto in noi, riempire il nostro vuoto. Ma è Dio che lo riempie, non siamo noi a riempirlo.
Capite allora perché l’umiltà non è negare i doni di Dio, ma ringraziarne continuamente il Signore accogliendoli, senza attribuirli a noi, ma considerando la responsabilità che essi ci affidano nei confronti dei fratelli, perché ogni dono che ci viene consegnato è perché la vita venga offerta. Per cui diventiamo riconoscenti a Dio e ci mettiamo al servizio dei fratelli senza pretendere il riconoscimento, senza pretendere la gratitudine dagli altri, senza rivendicare diritti.
E’ difficile arrivare a questo punto, però è la condizione assolutamente necessaria per essere in grado di affrontare la morte e quindi per essere in grado di vivere intensamente.
Chiediamo allora oggi al Signore innanzitutto la luce, perché noi certamente non sappiamo riconoscere la nostra interiorità, non sappiamo valutarla, perché viviamo nella falsità, mascherati, abbiamo di noi un’immagine che non corrisponde alla realtà. Allora la luce ci è necessaria come prima cosa. Chiediamo allora oggi al Signore la luce, per guardarci bene dentro, per capire bene il groviglio che portiamo con noi, la falsità in cui viviamo.
Credo che questo possa essere sufficiente perché dopo, una volta vista la nostra condizione, il resto lo fa Dio e giungiamo ad una consapevolezza che ci conduce ad essere continuamente riconoscenti nei confronti di tutti coloro che incontriamo. L’espressione più chiara dell’atteggiamento che Gesù vuole insegnare ai suoi è il grazie che impariamo a dire continuamente a tutti coloro che ci offrono vita: anche in situazioni negative, anche in circostanze limitate, noi cogliamo il dono di Dio e diciamo “Grazie, Signore, per i fratelli che incontriamo”.
L’eucarestia dovrebbe essere il segno di questo grazie quotidiano, settimanale. Facciamo in modo che anche oggi lo sia per tutti noi.