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Il mio ritorno in Amazzonia

di Padre Giovanni Manco (PIME)

Padre Giovanni Manco, missionario del Pime, racconta da Santaremle i drammi di una terra dissanguate e depredata. Ma anche le sfide lasciate in eredità dal Sinodo voluto da Papa Francesco nel 2019

Lo scorso anno ho lavorato per sei mesi a Santarem, nell’Amazzonia brasiliana, dove ero già stato da giovane missionario del Pime, per collaborare nell’arcidiocesi alla formazione teologica, filosofica e antropologica del clero, dei laici e dei futuri preti locali. Quella che ho trovato non è più l’Amazzonia che avevo conosciuto quasi 25 anni fa, quando fui ordinato diacono a Laranjal do Jari, famosa favela fluviale dalle mille contraddizioni nello Stato dell’Amapá. Mi sono trovato davanti una foresta dissanguata dalle continue queimadas (incendi dolosi), inesorabili deforestazioni e manipolazioni del suolo per la coltivazione della soia che, secondo l’ex presidente populista Bolsonaro, avrebbe dovuto arricchire le popolazioni indigene locali. Dal punto di vista sociale ho incontrato un popolo polarizzato nel conflitto tra quanti sostengono l’ideologia estrattivista e quanti vogliono giustamente difendere l’ambiente amazzonico, secondo le indicazioni offerte anche dal Sinodo tenuto in Vaticano tre anni fa e dall’esortazione apostolica di Papa Francesco Querida Amazonia.
Nel 2022 sono andati perduti 10,5 milioni quadrati di foresta: il livello più alto da 15 anni a questa parte.

L’Amazzonia in un anno ha perso l’equivalente di 3 mila campi di calcio al giorno. A rivelarlo è un report dell’Istituto Amazon che dal 2008 si dedica al monitoraggio della conservazione della foresta pluviale, basandosi essenzialmente sulle immagini satellitari. Secondo l’organizzazione il 2022 è stato un anno record, il peggiore dal 2007, quanto a distruzione di chilometri quadrati di foresta, segnando peraltro un aumento per il quinto anno consecutivo.
L’analisi del Sinodo e la relativa ricetta per la salvaguardia dell’Amazzonia erano corrette: mettevano in luce la necessità che le popolazioni locali – formate da popoli originari, caboclos e contadini – ridiventassero i veri custodi di questa terra. Ma le politiche portate avanti – prima con Lula e Rousseff, poi con Bolsonaro – non hanno posto limiti alla devastazione. Anzi, negli ultimi anni sono state condotte campagne di vera e propria occupazione ed estrazione di minerali in ingenti territori abitati da garimpeiros che hanno inquinato le falde acquifere di molti affluenti del lussureggiante Rio delle Amazzoni.

Davanti a questo scenario, come pensare all’Amazzonia con la sua enorme biodiversità in un progetto di sviluppo sostenibile in tutte le sue dimensioni? Che ricchezze sono quelle che si trasformano in avidità economica senza regole? Come deve interagire lo Stato con gli attori coinvolti in modo attivo o passivo e quali sono gli strumenti che devono essere utilizzati per l’esercizio di questa funzione?
Ci troviamo a una svolta critica nella storia del Pianeta, in un momento in cui l’umanità deve scegliere il suo futuro. Man mano che il mondo diventa sempre più interdipendente e fragile, il futuro riserva insieme grandi pericoli e grandi opportunità. Per progredire dobbiamo riconoscere che, pur tra tanta magnifica diversità di culture e di forme di vita, siamo un’unica famiglia umana e un’unica comunità con un destino comune. Dobbiamo unirci per costruire una società globale sostenibile, fondata sul rispetto per la natura, sui diritti umani universali, sulla giustizia economica e sulla cultura della pace. Per questo fine è imperativo che tutti dichiariamo la nostra responsabilità gli uni verso gli altri e verso le generazioni future.

L’Amazzonia è stata sempre considerata come una terra di conquista, fin dalla fine del XIX secolo, con le opportunità che offriva “l’oro nero” della gomma e l’incentivo offerto ai 300 mila abitanti del Nord-est del Brasile dal governo per migrare in questo territorio. L’inaugurazione della grande autostrada Transamazzonica avvenne nel 1972, lo stesso anno in cui i vescovi della regione si incontrarono per la prima volta a Santarem e in cui fu fondato il Consiglio indigenista missionario (Cimi). Da allora non si sono più fermati i progetti faraonici di sviluppo insostenibile, tutti caratterizzati da un modello che mira solo a prelevare materie prime (lattice, legname, oro, minerali, petrolio, gas, acqua), con mano d’opera a basso costo, talvolta letteralmente sacrificata per “esplorare” le regioni meno accessibili e, poi, cedere a prezzi irrisori le terre a latifondisti o alle grandi imprese multinazionali.

Come ha detto il gesuita padre Adelson Araujo dos Santos, professore di spiritualità all’Università Gregoriana originario di Manaus, che ha partecipato ai lavori del Sinodo: «Il Papa è stato ispirato nel guardare a questa regione del mondo, proprio oggi. E la parola chiave è conversione: si chiede un cambio di stile di vita sia personale sia comunitario, dalle città fino agli Stati, affinché la politica e lo sviluppo economico scongiurino la distruzione dell’ambiente. Il “buon vivere” delle popolazioni indigene (il sumak kawsay come lo definiscono quechua e aimara) è esempio di un rapporto armonico e di mutuo rispetto con la natura. Lo indica soprattutto a noi, schiavi del bisogno di possedere, lo indica a noi che viviamo senza pensare al domani, come se le risorse fossero inesauribili».

Come missionari al servizio delle Chiese locali cerchiamo di essere segni inequivocabili di giustizia e pace per queste popolazioni, assumendo i progetti delle commissioni diocesane e della Repam (la rete ecclesiale delle diocesi dell’Amazzonia) e camminando umilmente accanto agli operatori pastorali e agli attivisti locali che hanno a cuore il futuro della regione. Personalmente mi dedico al progetto di formazione dei ragazzi della pastorale giovanile, perché sono convinto che il presente e il futuro del mondo dipendano dalla loro volontà di diventare i protagonisti del cambiamento.
Tra le sfide pastorali poste dal vastissimo bacino amazzonico vi sono le distanze e la difficoltà di raggiungere alcune zone della foresta. Nel dibattito intorno al Sinodo l’opinione pubblica si è concentrata molto sulla proposta dell’ordinazione di “viri probati”, uomini sposati, per non privare le comunità più lontane dell’accesso ai sacramenti. Papa Francesco non l’ha ripresa, invitando invece i vescovi a essere più generosi nell’invio di missionari (Querida Amazonia n. 90) e a valorizzare ministeri laicali e diaconi permanenti. Concentrarsi su questo tema, però, rischia di non farci vedere che nelle zone più remote vive oggi una parte molto piccola delle nostre comunità. La popolazione amazzonica si concentra ormai intorno alle città e alle sue periferie dove si coagulano tante contraddizioni.
Nella periferia nord di Santarem, dove svolgo il mio ministero, si addensano migliaia di contadini provenienti dal bacino del fiume Tapajos costretti a vivere nelle famose invasoes (le baraccopoli sorte su terreni occupati) senza servizi igienici essenziali e senza scuole di qualità. Per questo motivo Papa Francesco ha coniato la frase “tutto si tiene”: ci ricorda che la questione ecologica non è un lusso per sognatori, ma è intimamente vincolata all’ecologia umana e al destino di milioni di persone.

Il ritorno di Lula da Silva alla presidenza a Brasilia è stato accompagnato nel Paese da profonde tensioni, con i sostenitori di Bolsonaro che sono arrivati a prendere d’assalto le sedi delle istituzioni. È uno scontro che avviene in un territorio chiave per il futuro del Pianeta: nel 2024 il Brasile assumerà la presidenza del G20 mentre nel 2025 proprio l’Amazzonia ospiterà la Conferenza sul clima. Questo non è il tempo della rassegnazione e del cinismo, ma del sogno condiviso con milioni di persone che vogliono costruire un mondo di giustizia e pace. La guerra e la violenza non possono essere l’ultima parola: «Impariamo a fare il bene, ricerchiamo la giustizia» (Is 1,17) e con un senso di grande responsabilità prepariamo un mondo più umano e giusto per le generazioni future.