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Il Papa a ebrei e cristiani: educare alla fraternità perché l’odio non prevalga

Durante l’incontro nel Museo delle Belle Arti con i rappresentanti del Consiglio ecumenico delle Chiese e con alcune comunità ebraiche dell’Ungheria, Francesco ha detto che il “Dio dei padri apre sempre strade nuove”: “come ha trasformato il deserto in una via verso la Terra Promessa, così desidera portarci dai deserti aridi dell’astio e dell’indifferenza alla sospirata patria della comunione”

Amedeo Lomonaco – Città del Vaticano

È uno dei simboli dell’incantevole città di Budapest, il monumentale Ponte delle Catene, l’emblematica immagine scelta da Papa Francesco, durante il secondo discorso del viaggio apostolico, rivolto ai rappresentanti del Consiglio ecumenico delle Chiese e ad alcune comunità ebraiche dell’Ungheria, per descrivere il “percorso di comunione” dell’ecumenismo.

Quella dell’antisemitismo è una miccia che va spenta
Quello dell’ecumenismo è un cammino “a volte in salita, in passato faticoso”. Rivolgendosi ai fratelli di queste Chiese e a queste comunità, che ha incontrato dopo l’abbraccio ai vescovi ungheresi, Francesco h
a ricordato che il noto collegamento tra due zone di Budapest, lungo il fiume Danubio, è anche un simbolo di unità:
Vorrei riprendere con voi l’evocativa immagine del Ponte delle Catene, che collega le due parti di questa città: non le fonde insieme, ma le tiene unite. Così devono essere i legami tra di noi. Ogni volta che c’è stata la tentazione di assorbire l’altro non si è costruito, ma si è distrutto; così pure quando si è voluto ghettizzarlo, anziché integrarlo. Quante volte nella storia è accaduto! Dobbiamo vigilare e pregare perché non accada più. E impegnarci a promuovere insieme una educazione alla fraternità, così che i rigurgiti di odio che vogliono distruggerla non prevalgano. Penso alla minaccia dell’antisemitismo, che ancora serpeggia in Europa e altrove. È una miccia che va spenta. Ma il miglior modo per disinnescarla è lavorare in positivo insieme, è promuovere la fraternità. Il Ponte ci istruisce ancora: esso è sorretto da grandi catene, formate da tanti anelli. Siamo noi questi anelli e ogni anello è fondamentale: perciò non possiamo più vivere nel sospetto e nell’ignoranza, distanti e discordi.

In cammino seguendo il Signore
Il pensiero del Pontefice è rivolto anche al “centro spirituale pulsante di questo Paese” nel cuore dell’Europa, l’abbazia di Pannonhalma. In questo monastero benedettino fondato nel 996 tre mesi fa, seguendo il solco del dialogo ecumenico, si è tenuto un incontro al quale ha partecipato anche il cardinale Kurt Kock, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, per riflettere sul tema “Dio e il mondo. Ospite alla Mensa della Parola”. Un’occasione, ha ricordato oggi il Papa, “per pregare insieme” e darsi da fare nella carità, “la via più concreta verso la piena unità”. Ricordando il padre comune nella fede, Abramo, Francesco ha poi espresso apprezzamento per l’impegno testimoniato nell’abbattere “i muri di separazione del passato”: “ebrei e cristiani – ha affermato – desiderate vedere nell’altro non più un estraneo, ma un amico; non più un avversario, ma un fratello”. “Questo – ha aggiunto – è il cambio di sguardo benedetto da Dio, la conversione che apre nuovi inizi, la purificazione che rinnova la vita”. Le solenni feste di Rosh Hashanah e dello Yom Kippur, che cadono in questo periodo, “sono occasioni di grazia – ha detto Francesco – per rinnovare l’adesione a questi inviti spirituali”:

Il Dio dei padri apre sempre strade nuove: come ha trasformato il deserto in una via verso la Terra Promessa, così desidera portarci dai deserti aridi dell’astio e dell’indifferenza alla sospirata patria della comunione. Non è un caso che quanti nella Scrittura sono chiamati a seguire in modo speciale il Signore debbano sempre uscire, camminare, raggiungere terre inesplorate e spazi inediti. Pensiamo ad Abramo, che lasciò casa, parentela e patria. Chi segue Dio è chiamato a lasciare. A noi è chiesto di lasciare le incomprensioni del passato, le pretese di avere ragione e di dare torto agli altri, per metterci in cammino verso la sua promessa di pace, perché Dio ha sempre progetti di pace, mai di sventura.

Non cedere alle logiche dell’isolamento
Mettendo a fuoco l’immagine del ponte il Papa, sommo Pontefice della Chiesa universale, si è anche soffermato su un concetto fondamentale nella Scrittura, quello dell’alleanza. “Un ponte – ha detto Francesco – mette insieme due parti”:

Il Dio dell’alleanza ci chiede di non cedere alle logiche dell’isolamento e degli interessi di parte. Non desidera alleanze con qualcuno a discapito di altri, ma persone e comunità che siano ponti di comunione con tutti. In questo Paese voi, che rappresentate le religioni maggioritarie, avete il compito di favorire le condizioni perché la libertà religiosa sia rispettata e promossa per tutti. E avete un ruolo esemplare verso tutti: nessuno possa dire che dalle labbra degli uomini di Dio escono parole divisive, ma solo messaggi di apertura e di pace. In un mondo lacerato da troppi conflitti è questa la testimonianza migliore che deve offrire chi ha ricevuto la grazia di conoscere il Dio dell’alleanza e della pace.

Fare memoria del passato
Francesco ha poi ricordato che il Ponte delle Catene, “oltre a essere il più noto, è anche il più antico” di Budapest:

Molte generazioni l’hanno attraversato. Esso invita così a fare memoria del passato. Vi troveremo sofferenze e oscurità, incomprensioni e persecuzioni ma, andando alle radici, scopriremo un patrimonio spirituale comune più grande. È questo il tesoro che ci permette di costruire insieme un avvenire diverso.

Echi di speranza e di pace
Il pensiero del Papa è poi andato, con commozione, a “tante figure di amici di Dio che hanno irradiato la sua luce nelle notti del mondo”. Tra i tanti, ha ricordato un grande poeta ungherese Miklós Radnóti, nato nel 1909 a Budapest. La sua carriera “fu spezzata dall’odio accecato di chi, solo perché era di origini ebraiche, prima gli impedì di insegnare e poi lo sottrasse alla famiglia”. “Rinchiuso in un campo di concentramento, nell’abisso più oscuro e depravato dell’umanità, continuò a scrivere poesie, fino alla morte”. “Il suo Taccuino di Bor – ha ricordato Francesco – è l’unica raccolta poetica sopravvissuta alla Shoah: testimonia la forza di credere al calore dell’amore nel gelo del lager e di illuminare il buio dell’odio con la luce della fede”.

L’autore, soffocato dalle catene che gli stringevano l’anima, trovò in una libertà superiore il coraggio di scrivere: «Prigioniero, ho preso la misura a ogni speranza» (Taccuino di Bor, Lettera alla moglie). E pose una domanda, che risuona anche per noi oggi: «E tu, come vivi? Trova eco la tua voce in questo tempo?» (Taccuino di Bor, Prima Ecloga). Le nostre voci, cari fratelli, non possono che farsi eco di quella Parola che il Cielo ci ha donato, eco di speranza e di pace. E se anche non veniamo ascoltati o siamo incompresi, non smentiamo mai con i fatti la Rivelazione di cui siamo testimoni. Alla fine, nella solitudine desolata del campo di concentramento, mentre si rendeva conto che la vita stava appassendo, Radnóti scrisse: «Sono anch’io una radice adesso… Ero fiore, sono diventato radice» (Taccuino di Bor, Radice). Anche noi siamo chiamati a diventare radici.

Semi e radici
“I nostri cammini di fede, ha detto infine Papa Francesco, sono semi che si trasformano in radici sotterranee” che alimentano “la memoria e fanno germogliare l’avvenire”:

È questo che il Dio dei nostri padri ci chiede, perché – come scriveva un altro poeta – «Dio aspetta da un’altra parte, aspetta proprio al fondo di tutto. Giù. Dove ci sono le radici» (R.M. Rilke, Wladimir, il pittore di nuvole). Si giunge in alto solo se radicati in profondità. Radicati nell’ascolto dell’Altissimo e degli altri aiuteremo i nostri contemporanei ad accogliersi e amarsi. Soltanto se saremo radici di pace e germogli di unità saremo credibili agli occhi del mondo, che guarda a noi, con la nostalgia che sbocci la speranza. Grazie, e buon cammino insieme!

I saluti al Papa
Dopo aver concluso il proprio discorso, Francesco ha aggiunto a braccio: “Scusatemi se io ho parlato da seduto ma io non ho 15 anni”. Le parole del Papa, al quale è stata donata una Torah, sono state precedute dai saluti di un rappresentante della comunità cristiana, József Steinbach, vescovo calvinista, presidente del Consiglio Ecumenico delle Chiese d’Ungheria, e di quella ebraica, il rabbino di Buda Sud, Zoltàn Radnóti. Il vescovo Steinbach riferendosi al Congresso Eucaristico Internazionale in Ungheria, ha detto che ogni Eucaristia è “un tributo di grazie concreto davanti al Signore”. Questo dono dell’amore del Signore ci vincola a donarci reciprocamente, a prenderci cura gli uni degli altri, ad apprezzare la vita, l’ordine della creazione di Dio, a proteggere la terra che è la nostra abitazione, a pregare e ad agire concordemente, a vivere una vita bella e piena, dove tutta l’esistenza umana può realizzarsi, per la gloria di Dio, e per il bene delle altre persone. Il rabbino Radnóti ha preso la parola al posto di Róbert Fröhlich, rabbino capo d’Ungheria che per motivi di salute non ha potuto partecipare all’incontro. Ha sottolineato che le culture sono interconnesse: Possiamo imparare – ha detto – gli uni dagli altri e diventare più saggi. “In questo momento storico – ha aggiunto – cristiani abbiamo la speranza di vivere nel rispetto, nella comprensione nell’amore reciproco”. Il Consiglio ecumenico delle Chiese ungheresi (Magyarországi Egyházak Ökumenikus Tanácsa- Meot) è stato fondato nel 1943 ed è membro del Consiglio Mondiale delle Chiese. Vi fanno parte 11 Chiese, tra le quali la Chiesa Evangelica Luterana, la Chiesa Riformata e l’Unione Battista d’Ungheria, che collaborano con altre 20 Chiese e organizzazioni cristiane magiare.