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La «carne tenera» e il cambio di paradigma. Meditazione di un presentimento su papa Francesco

di Andrea Grillo in “Come se non” – http://www.cittadellaeditrice.com/munera/ – del 26 aprile 2025

Se vogliamo onorare la memoria di un papa che abbiamo appena salutato per sempre, se vogliamo guardare negli occhi fino in fondo i milioni di fedeli che non sono disposti ad ascoltare una sintesi burocratica del suo pontificato, se abbiamo il coraggio di salire su quel pinnacolo del tempio, su cui Francesco si è lasciato tentare per 12 anni, allora dobbiamo alzare e ampliare lo sguardo.
Non capiremo Francesco finché lo metteremo nel breve spazio dei suoi 12 anni di pontificato. Una cronistoria, anche dettagliata, non basta. Neppure lo capiremo del tutto se lo avremo collocato nella intera parabola della sua vita, dal 1936 al 2025. E’ già molto, ma non è sufficiente. Per capirne il significato dobbiamo leggerlo in una evoluzione secolare, che ha segnato la Chiesa cattolica in modo davvero profondo.
Aveva detto un teologo sudamericano: “ma come è stato possibile che quel 13 marzo del 2013 noi abbiamo potuto riconoscere, in quell’uomo vestito di bianco, ma che faceva cose inaudite già nei primi minuti di pontificato, proprio un papa?”. Il teologo rispose subito: “perché il Concilio ce ne aveva dato il presentimento”. E’ inutile dire che per alcuni, nemmeno dopo 12 anni, il riconoscimento è stato facile. Se il Concilio Vaticano II non ti ha parlato, Francesco resta per te un estraneo, forse uno sgorbio o addirittura un pericolo.

Come possiamo capirlo?

Ecco allora la questione più importante: come lo possiamo capire, se non lo mettiamo tra le varianti forse simpatiche della storia, ma troppo stravaganti e poco incisive?
Io credo che Francesco, sia pure in modo non univoco e con una coscienza solo parziale di ciò che avveniva in lui e attraverso di lui, ci abbia mostrato, all’improvviso, un modello non più moderno di papato. Francesco ha iniziato un “nuovo modello”, ha inaugurato un “cambio di paradigma”. Tanto più perché è venuto dopo Benedetto XVI, che ha rappresentato, per certi versi, il compimento del papato moderno, ossia tridentino e ottocentesco. Con Francesco si esce da quel paradigma di papato e di chiesa. Lo si fa in modo iniziale, non del tutto coerente, zoppicante, ma lo si fa.
Nella storia il modello moderno di Chiesa cattolica è nato con il Concilio di Trento. Per nascere, quel modello ha dovuto ripensare a fondo il modello medievale, trasformandolo in “sistema”. Il Concilio di Trento ci ha dato un “sistema” di riferimento assicurato tra mondo e vangelo, in modo davvero poderoso. Clericale, in quel modello, significava rilevante per il mondo e capace di dialogare con esso. Quel modello è entrato in crisi con il sorgere dello stato liberale. Così ha dovuto trasformarsi, lungo tutto il XIX secolo, fino a mettere a punto la versione ottocentesca del modello moderno, che vediamo nel modo più limpido nel Codice di Diritto canonico del 1917.
Qui però, in questa piegatura tardo-moderna, il paradigma ecclesiale inizia a ripiegarsi su di sé. Scopre (o è costretta a scoprire) una nuova autoreferenzialità, fino a costruirsi un “ordinamento giuridico parallelo” che la immunizza dal mondo. La Chiesa autoreferenziale è una invenzione del XIX e XX secolo e si afferma, con sovranità e con decisione, fino agli anni 50 del Novecento. In questo mondo, l’aggettivo clericale cambia significato: diventa “contro il mondo moderno”. L’antimodernismo che caratterizza questa Chiesa, spesso senza che ce ne fosse le coscienza, era la negazione più radicale dello spirito con cui il Concilio di Trento aveva inteso i suoi “decreti di riforma”. Si voleva essere tridentini, ma si affossava la grande idea del Concilio di Trento.

Una tradizione non più moderna

Il Concilio Vaticano II, come una inaspettata primavera, ha introdotto una profonda revisione del modello moderno, ma ha solo inaugurato uno spazio di riforma, che è stato occupato subito dalla liturgia, ma ad essa è seguito ben poco. Per questo, già dalla fine degli anni 70, è iniziata una fase di resistenza al Concilio Vaticano II, in cui i papi “padri del Concilio” si sono comportati da un lato come genitori affannati per le sorti del figli, ma dall’altro come “padri padroni” che non davano fiducia al figlio. Il punto massimo di questa resistenza paterna è accaduto plasticamente quando Benedetto XVI, dalla finestra del famoso “discorso della luna”, ma 50 anni dopo, ha parlato, ma solo all’inizio, di una “felicità del passato”, per poi arrivare a paragonare la recezione del Concilio ad una esperienza del “peccato originale”: sembrava un punto di non ritorno.
Invece, l’arrivo di papa Francesco ha detto, contemporaneamente, molte cose: l’effetto di un papa americano (di cultura e di chiesa americana) sul governo romano; la esperienza della chiesa povera del sudamerica che interferisce con le felpate e ricche diplomazie europee; l’utilizzo, a proposito e talora a sproposito, di un linguaggio non formale e libero da parte del “sovrano” (da “la mafia spuzza” alle barzellette sulle suocere o alle citazioni di J. L. Borges); da parte di colui che le categorie giuridiche definiscono infallibile (a certe condizioni) e dotato (sempre) di giurisdizione universale e immediata, essendo titolare, nella sua persona, di tutto il potere legislativo, esecutivo e giudiziario (nello stato della Città del Vaticano e, mutatis mutandis nella Chiesa) la inattesa confessione con cui arriva a dire: “chi sono io per giudicare?”.
Esemplare è stato il modo con cui Francesco ha guardato, nei primi anni di pontificato, all’interno del primo grande cammino sinodale, alla “gioia dell’amore”. Lo ha fatto uscendo dalle categorie moderne, dal modo tridentino e ottocentesco di giuridicizzare l’amore e di fare della competenza della Chiesa sulla “materia sessuale” la cosa più importante, e ha attinto invece al sapere premoderno dei medievali e al sapere postmoderno della società aperta. Cose antiche e cose nuove, ma in un paradigma inedito.

La carne tenera non è autoreferenziale

Eppure tutto era iniziato già nel discorso del Cardinale Bergoglio prima della elezione, dalla esigenza di liberare la chiesa dalla autoreferenzialità, di pensare una “chiesa in uscita”, ossia capace di superare la caratteristica più accentuata dalla Chiesa cattolica dopo il 1870, dopo la perdita del potere temporale. Qui sta, a mio avviso, il segno dei tempi, il “cambio di paradigma”: riaprire la Chiesa alla referenzialità ad altro, liberandola dalla autoreferenzialità, significa uscire dai linguaggi tridentini, di per sé non autoreferenziali, ma che così sono diventati per come sono stati interpretati negli ultimi due secoli, per rispondere al trauma della modernità liberale. Non è un caso che Francesco, nei suoi documenti più importanti, come Evangelii Gaudium, Laudato sì, Fratelli tutti, Desiderio desideravi, utilizzi la teologia medievale, i santi, la letteratura, la storia, l’arte, per uscire dalle categorie che rendono “rigida” la tradizione. L’immagine della “carne tenera” del famoso discorso di Firenze, del 2015, è forse una delle cifre sintetiche più potenti del nuovo paradigma, che Francesco introduce nel papato e nella Chiesa
«La dottrina cristiana non è un sistema chiuso, incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: si chiama Gesù Cristo»
Quel modello nuovo, ma tradizionale, perché nutrito da una tradizione non moderna, che il Concilio Vaticano II aveva introdotto come una cascata di acqua pura, e che le pompe ecclesiali avevano cercato di prosciugare tra gli anni 70 e il primo decennio del nuovo millennio, all’improvviso, con Francesco, si è trovato a parlare e ad agire nel punto più alto della gerarchia. Non a caso è stato tradotto in “piramide rovesciata”.
Questa immagine, unita a una testimonianza continua e a una serie di discorsi e di provvedimenti, non sono garanzia né di rovesciamento né tantomeno di rivoluzione. Ma come Francesco è stato riconosciuto grazie ad un presentimento che il Concilio ci aveva affidato 50 anni prima di lui, nel segreto dei cuori, oggi è nato il presentimento che ciò che in Francesco abbiamo visto nascere, ora
possa e debba crescere, darsi forme, contenuti e colori di novità. Allora, con questo presentimento ben fisso nel cuore – e del quale dobbiamo ringraziare i 12 anni di papato di Francesco, anche quando non sono stati coerenti, anche quando hanno perso la presa, anche quando hanno fermato la immaginazione e attenuato la inquietudine – con questa speranza da lui ri-accesa guardiamo alla Chiesa dopo di lui. Quel presentimento di ciò che potrà accadere è stato ri-aperto e ri-alimentato dalla sua parola e dai suoi gesti indimenticabili, così pieni di grazia e così ricchi di fede, dentro una chiesa finalmente riconosciuta nella sua pluralità di 5 continenti, in cui la unità si può costruire solo nella differenza accolta e riconosciuta, ascoltata e benedetta.

Le “troppe spezie” di Mozart

Risulta che Jorge Mario Bergoglio amasse soprattutto la musica di Mozart. Anche a Mozart era capitato di essere giudicato superficialmente: “troppe spezie” fu uno dei giudizi drastici espressi da un critico suo contemporaneo. I contemporanei non è raro che commettano strafalcioni, sui musicisti come sui papi. Anche di papa Francesco più di un superficiale avrà detto: troppe spezie. E forse ora si augura che in futuro, a Roma, si evitino questi “gravi eccessi”. Ma come in Mozart abbiamo imparato ad ascoltare un grande classico, proprio grazie alle sue spezie, che noi oggi neppure notiamo, anche in Francesco, grazie al presentimento che abbiamo concepito di lui, sapremo leggere, persino nelle sue increspature, l’apparire iniziale e solenne di un modello nuovo di papato e di un paradigma inedito di dottrina e disciplina ecclesiale. Se guardiamo lontano nel passato e vicino nel nostro futuro, riconosciamo la traccia inconfondibile del magistero di Francesco che porta frutto. Normalizzare Mozart è sempre possibile: ma tutti si annoieranno a morte.