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Uruguay, addio a Pepe Mujica il presidente tupamaro faro dell’America del Sud

di Daniele Mastrogiacomo in La Repubblica del 14.05.25

Sono un contadino nell’animo»; «ho dato un senso alla mia vita, morirò felice»; «ho il destino dell’avanguardia». Filosofo e politico, José Alberto Mujica Cordano, da tutti chiamato Pepe Mujica, ci ha lasciato grappoli di frasi che amava sparare come aforismi. Il noto ex
uerrigliero tupamaro, faro della sinistra latino-americana, più volte ministro e quindi presidente dell’Uruguay dal 2010 al 2015, si è spento a pochi giorni dei 90 anni che avrebbe compiuto il 20 maggio.
«Il tumore all’esofago sta colonizzando il fegato. Non posso fermarlo.
Perché sono anziano e ho due malattie croniche», aveva detto a gennaio ai giornalisti che erano accorsi alla storica casa di campagna nella periferia di Montevideo, dove ha vissuto fino alla fine con la sua compagna e moglie Lucía Topolansky. Aveva concluso con una rivendicazione:
«Il mio corpo non ce la fa più. Il mio cuclo è finito e un guerrigliero ha diritto a riposare».
Figlio di un padre di origini basche e di una madre con lontane radici italiane (Favale di Malvaro, in
provincia di Genova), il presidente «più povero al mondo», come amava descriversi visto che donava a organizzazioni di solidarietà il 90% dei suoi 8.300 euro al mese di stipendio da capo di Stato, trascorse un’infanzia segnata dalla povertà. Grazie allo zio materno, Agel Cordano, fervente nazionalista e peronista, si appassionò alla politica. Nei primi anni Sessanta aderisce al neonato Movimiento de Liberación Nacional, un’organizzazione marxista-leninista ispirata alla rivoluzione cubana e alla difesa dei diritti dei lavoratori della canna da zucchero. Il gruppo divenne noto come Tupamaros e Mujica partecipa a numerose azioni.
Viene arrestato nel 1979. È ferito da sei colpi. Chiacchierava con alcuni amici in un bar di Montevideo. Un parrocchiano li riconosce come
guerriglieri. Avvisa la polizia che arriva e inizia a sparare. È ricoverato all’ospedale militare, lo salverà un chirurgo. «Era un compagno, un Tupa del basso – rammenta – mi ha dato un secchio di sangue e mi ha salvato. È come credere in Dio». Ateo fino in fondo, lo arresteranno altre tre
volte. Sarà condannato e per 12 anni rinchiuso in un carcere, costretto a rimanere quasi sempre in piedi o piegato per il soffitto basso. In isolamento, senza cibo, con uscita all’aria aperta una volta al mese. È liberato, grazie ad un’amnistia, solo nel
1985 quando è ristabilita la democrazia. «La morte rende la vita un’avventura», amava ripetere. «È la cosa più preziosa, l’avventura di essere vivi. La vera domanda è come trascorriamo il nostro tempo nella vita».
«Stiamo costruendo società auto-sfruttate – ricordava –hai tempo per lavorare ma non per vivere». Per questo viveva in sobrietà. La sua ca-
setta di campagna che curava con la moglie anche da presidente, il suo maggiolino Wolkswagen del 1987 che non ha mai venduto, l’amicizia con Lula. L’impegno politico lo ha portato a conquiste sociali rivoluzionarie per un Paese come l’Uruguay nei 5 anni da presidente: l’aborto legalizzato, la libera unione tra persone dello stesso sesso, la depenalizzazione dell’uso della marijuana. Muji-
ca è morto in pace con se stesso. Ha vissuto fino all’ultimo quell’esistenzaa che amava e che è riuscito a non sprecare.

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