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Benedire

Dio benedice le diversità

il segreto della salvezza umana è realizzare la comunità tra i popoli valorizzando le diversità

di don Carlo Molari

Noi in fondo cerchiamo sempre salvezza, cioè abbiamo bisogno di un’offerta continua di vita perché non possiamo cogliere il dono della vita in modo istantaneo e completo, ma solo a piccoli frammenti, nel lungo cammino della storia, fino a giungere a una completezza che noi non conosciamo. La salvezza non è il ritorno alle forme originarie, ma è il cammino verso ignoti traguardi di vita, ignoti traguardi di umanità.
Quali forme di umanità ci sono ancora da scoprire? Quali forme di comunione sono ancora da realizzare? E la salvezza è precisamente quella pienezza di vita a cui siamo chiamati e che non abbiamo mai percepito se non in forme relative alla nostra situazione?
Per esempio nella forma fetale può essere che l’esperienza dell’emergere nella vita sia stata inebriante. È chiaro che non vi sia stata consapevolezza, ma c’è stata l’esperienza reale di un qualcosa di straordinario, perché tra il non esistere e il cominciare a vivere c’è un abisso che credo abbia lasciato dentro di noi dei segni che non possono essere scomparsi interamente nonostante le esperienze drammatiche che possono essere state fatte dopo.
In questo senso credo che può rimanere una nostalgia di una pienezza che fa pregustare la possibilità di una pienezza continua, perché noi siamo chiamati a vivere pienamente ogni situazione di vita, ogni circostanza, ogni giornata. E la salvezza è propriamente questa pienezza. Giovanni (cap. 10) esprime proprio così la missione di Gesù: «io sono venuto perché abbiate la vita e l’abbiate con pienezza».
A livello personale, il cammino della nostra esistenza si configura proprio come il passaggio da una pienezza provvisoria a una pienezza più ricca. Ma a volte avviene anche il passaggio da una pienezza provvisoria al disordine successivo. Le nostre esperienze non sempre procedono di pienezza in pienezza.
Questo discorso vale anche per l’umanità intera.
Nella visione dinamica non può esserci una forma perfetta di esistenza da raggiungere e da conservare per sempre, ma si è sempre in cammino, per cui una forma ordinata di società deve essere consapevole della propria condizione per giungere a forme inedite attraverso il coinvolgimento di altri.
Alcuni vivono le situazioni attuali con la nostalgia di uno stato precedente: di un’infanzia armonica, di una giovinezza piena e non si rendono conto che c’è una pienezza e un’armonia molto più ricca da raggiungere nella situazione attuale. Sia a livello personale che sociale, si vive nella nostalgia di forme perfette già raggiunte in passato, perché ci sono state situazioni che erano più armoniche, più congrue e anche più giuste, ma di una giustizia provvisoria che non poteva restare così, che doveva essere superata per assumere forme nuove, più ampie, con orizzonti più universali, sì da coinvolgere anche altri popoli.
Certo che a noi dà fastidio che vengano altri popoli perché portano altri guasti, ma non si può fermare la storia. Non ci si può illudere di realizzare una comunione, una suddivisione di beni in un determinato ambito con i confini chiusi e pretendere che questo resti sempre così, perché la storia ci chiama a comunioni sempre più profonde e a ricchezze di vita che non possiamo neppure supporre. La storia non è un dato acquisito e definitivamente posseduto, è una conquista continua, è un cammino.
Io credo sia importante una categoria che spesso non ricordiamo ed è il problema dell’unità del genere umano, ma non dell’unità dell’origine. Perché non è importante il problema delle origini. Ogni generazione nasce da capo e si ritrova con persone estranee, con persone con cui deve rinnovare la relazione. Ma soprattutto il problema dell’unità del genere umano deve essere visto in una prospettiva capovolta. Non è che siamo venuti tutti da un unico punto, ma siamo chiamati a raggiungere una unità nuova, una comunione profonda, una gestione dei beni della terra in modo unitario, comunicando doni che le diverse tradizioni e culture hanno accumulato. Siamo chiamati a diventare una cosa sola nella nostra tradizione ebraico-cristiana, questo è il segreto della salvezza umana: realizzare la comunità tra i popoli valorizzando le diversità, non uniformando le caratteristiche.
Il capitolo 10 del Genesi presenta la tavola dei 76 popoli, ovvero la descrizione geografica del mondo come allora lo vedevano nel territorio medio-orientale e nord-africano. Nella descrizione dei tre figli di Noè, c’è il richiamo a un secondo avvio della storia umana con il racconto del diluvio – comune a tante tradizioni culturali – descritto come una seconda alleanza e con la benedizione, per cui la dispersione dei popoli viene presentata come il frutto di una benedizione di Dio. La diversità è frutto di una benedizione di Dio. Dio benedisse Noè e i suoi figli e disse loro: «siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra» (in fondo è la stessa benedizione di Adamo ed Eva). L’arcobaleno viene interpretato come l’espressione di questa seconda alleanza. Questa benedizione che ripete la benedizione degli inizi è la ragione della dispersione dei popoli sulla terra e della loro diversità feconda. La dispersione avviene in nome di Dio secondo i diversi parametri dell’etnia, della lingua, del territorio e dell’organizzazione politica.
La dispersione viene presentata come frutto della benedizione di Dio.
Quando gli uomini resistono alla diversità, impediscono il progetto del futuro con la presunzione di possedere già le capacità operative, di avere già tutta la forza della vita, al punto che possono essere tutti uguali, possono avere tutti la stessa lingua, gli stessi progetti politici, perché possiedono già il segreto della vita.
Certo, anche la dispersione e la diversità contengono ambiguità e possono diventare male. Ma dobbiamo conservare sempre la necessità della dinamica anche perché, come dice Teilhard de Chardin, il processo della storia è un processo unificante.
E allora recuperiamo il concetto dell’unità del genere umano non nella prospettiva dell’origine, ma nella prospettiva del compimento.

DON CARLO MOLARI (Cesena, 1928)
Teologo, monsignore, presbitero. Ha insegnato Teologia dogmatica all’Università Lateranense, in quella Urbaniana e nell'Istituto di Scienze religiose della Gregoriana. Dal 1961 al ’68 è stato Aiutante di Studio della S. Congregazione per la Dottrina della Fede. Dal 1966, per un decennio, è stato segretario dell'Associazione teologica italiana e membro del Comitato di consultazione della rivista internazionale Concilium.
Autore di molti libri e saggi su temi teologici e spirituali. Ha curato per molti anni una rubrica sul quindicinale Rocca.
Amico e collaboratore di Ore undici fin dalle origini.