Vai all'archivio : •

Commento al cap. 9 di Giovanni (il cieco nato)

di Chiara

“Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9). Quanto ha affermato con linguaggio teologico all’inizio del suo vangelo, ora Giovanni lo racconta attraverso un incontro. La Luce che è Gesù Cristo strappa l’essere umano alla cecità e lo introduce a una vita luminosa, che si distingue per una triplice consapevolezza: di sé, degli altri e dell’agire di Dio. Quello compiuto da Gesù è un vero e proprio atto di ri-creazione dell’umano: il terrestre (adam) tratto dalla terra (adamà) che ha ricevuto il Soffio del Signore (cf. Gen 2,7), viene ri-plasmato dal fango nelle mani di Gesù. Questa vita radicalmente rinnovata e dilatata assume gli stessi tratti della Luce che l’ha resa autenticamente umana: il coraggio e la libertà; o forse è meglio dire: il coraggio della libertà.

Ogni incontro vissuto da Gesù è un appello alla vita piena. La premessa di questa chiamata riposa nella totale assenza di pregiudizi che sempre lo contraddistingue: Gesù non cede a una mentalità comune disumanizzante, ha il coraggio di uno sguardo e di una parola altri. Così, il primo passo dell’incontro con il cieco è una rottura con il mondo che si crede vedente e sapiente: Gesù spezza il legame tra malattia e peccato. Se non uscisse da questa logica, l’incontro non sarebbe altro che un esercizio di potere sul cieco, un movimento dall’alto del “giusto” al basso del “peccatore”. Non illudiamoci che le conoscenze scientifiche di oggi abbiano spazzato via il binomio malattia/colpa: ogni volta che pensiamo che una sofferenza fisica, psichica o spirituale sia meritata, che chi la subisce in fondo “se l’è cercata”, noi riproduciamo il giudizio da cui Gesù ci ha liberati e falliamo l’incontro perché ci concentriamo su ciò che non è essenziale. Gesù non si attarda a discutere con i discepoli, li mette a tacere: l’urgenza non sta nel comprendere le origini del male, che restano velate, ma nell’alleviarlo portando luce. Ovvero, dilatando la vita oltre le tante oscurità che la soffocano.

Il coraggio di Gesù, libero dai pregiudizi e anche dalla paura dell’incomprensione, nel cieco risanato si fa coraggio di dire sì a una vita nuova, di essere se stesso e non rinnegare la propria storia né l’azione di Gesù a suo favore: c’è un legame tra coraggio, libertà e fedeltà. E il coraggio si manifesta nel cieco come parola: una parola essenziale, chiara, franca e pubblica; una parola in apparenza sconfitta, ma che in realtà brilla vittoriosa in mezzo a tante parole deboli. Violente, sì, ma perché deboli e impaurite. Sono le parole dei genitori, pronte a rinnegare il figlio pur di non compromettersi; e sono le parole degli uomini religiosi, a cui non interessa che una vita sia stata sanata: è la perdita dei propri privilegi, la messa in discussione del sistema religioso che amministrano, a spaventarli e indurirli. Ma il coraggio si fa anche postura, perché noi parliamo con tutto il corpo: il cieco seduto a mendicare è rinato come uomo ben eretto, dallo sguardo lucido, dalla parola limpida e ironica, una parola che mette all’angolo chi l’ascolta perché veritiera.

L’accesso alla statura di Uomo ha però il prezzo del disconoscimento, dell’offesa, della derisione e dall’abbandono. È il prezzo che Gesù stesso ha vissuto. Comprendiamo così che il percorso di piena umanizzazione è inestricabilmente legato al cammino di crescita nel discepolato: umanità autentica e autentica sequela si intrecciano. E questo percorso duplice è segnato dalla dimensione del racconto: più volte il cieco narra la sua condizione precedente e quanto è accaduto. A ogni narrazione corrisponde una coscienza più limpida di sé ma anche di Gesù: riconosciuto all’inizio come taumaturgo e profeta, egli è infine proclamato quale Signore della propria esistenza. Non solo, a ogni narrazione cresce il coraggio di porsi davanti agli altri con libertà, senza sottrarsi alla loro presenza e alle loro contestazioni, ma restando se stessi, incarnando la propria unicità.

La Luce incontra le tenebre e a volte sembra esserne sopraffatta; allo stesso modo, chi si fa trasparenza della Luce incontra il buio dell’incomprensione, ma può portarlo senza perdere fiducia e speranza. Quando la Luce ha visitato l’abisso della propria tenebra personale, infatti, vi si resta ancorati. Magari dubbiosi, a volte provati e prostrati, ma irresistibilmente attratti dai gesti e dalle parole che sono stati capaci di guarire e donare vita nuova.

Come sempre nel suo vangelo, Giovanni mette in scena degli estremi: la luce e la tenebra, chi accoglie la luce e chi la rifiuta. In realtà sappiamo bene che la divisione non è esterna a noi, non ci pone di qua o di là perché è interiore: a volte siamo luce, a volte tenebra; la vita nuova e quella vecchia si alternano e si combattono in noi. Ma è proprio questa coscienza a guarirci giorno per giorno, a permetterci di ricominciare rinascendo di continuo grazie all’amore di Dio incarnato in Gesù. Non ci è chiesto di avere una vista perfetta, ma di saperci ciechi e lasciarci sanare. In fondo è questione di desiderio: ci è chiesto solo di desiderare la Luce.