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V Domenica di Pasqua Anno C

Dal Vangelo secondo Giovanni (13, 31-33. 34-35)

Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito.
Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.
Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».

OMELIA DI DON CARLO

Gesù dà come tessera di riconoscimento, come elemento specifico della comunità dei suoi seguaci, il ‘comandamento nuovo’: vuol dire che dava molta importanza al cambiamento che sollecitava, alla novità che voleva introdurre. Allora per noi è estremamente importante determinare bene a che cosa si riferisce Gesù, perché si tratta appunto della nostra identità di suoi seguaci.

Voglio però, prima di iniziare la riflessione, mettere in guardia da una concezione statica dell’identità e quindi anche dell’amore, cioè come se, una volta determinata e raggiunta, possa restare sempre la stessa, mentre l’identità della vita è un’identità di processo, è un’identità di divenire: noi non siamo, diventiamo. Quindi la legge che Gesù indica non è una legge dell’essere, è una legge del diventare. Che condurrà poi a un essere, ma a una forma di essere che non possiamo immaginare, descrivere, fissare in categorie assolute.

Questo ci impedisce di cadere nel fondamentalismo dell’amore, che è terribile, come il fondamentalismo della virtù, che impone il bene come l’abito che si mette addosso o come un soprannome che uno dà a un altro, cioè come un qualcosa di esteriore. Invece l’amore, la propria identità non può altro che fiorire dal di dentro. Ma non fiorisce in un istante, fiorisce in una successione di esperienze, di scelte, di decisioni. Questo teniamolo presente, per non fissarci in una modalità anche buona, ma che non è il compimento.

Questa è una delle caratteristiche che riguardano tutti gli aspetti della vita cristiana, quella che viene chiamata la dimensione ‘escatologica’ della vita cristiana: cioè tutte le caratteristiche tendono a un compimento, per cui non sono mai definibili compiutamente, non possiamo mai dire “questa è la perfezione”, perché la perfezione è al termine. Quindi non la possiamo descrivere, non la possiamo immaginare, l’unica cosa che possiamo fare è indicare il cammino, l’orientamento.

Questo vale anche per il comandamento di cui il Vangelo ci parla. Analizziamolo adesso.

Ho detto all’inizio che non possiamo ridurlo semplicemente all’amore: l’amore non è un comandamento cristiano, l’amore è la legge fondamentale della crescita delle persone umane: è stata sempre la legge fondamentale, anche se non sempre è stata capita bene o vissuta bene, quindi non può essere una specificità cristiana. Anche da un punto di vista religioso, tutte le grandi religioni prima o poi hanno scoperto o riscoprono continuamente la legge dell’amore nelle diverse forme; soprattutto poi le espressioni mistiche delle diverse religioni sono giunte a delle manifestazioni eccelse di amore, di oblatività, di misericordia. Quindi non possiamo, anche da un punto di vista religioso, considerare l’amore come una specificità cristiana.

Eppure Gesù dice: “Vi do un comandamento nuovo”. A che cosa si riferisce Gesù, visto che anche nella religiosità ebraica c’era già il comandamento dell’amore, quindi non può essere un comandamento nuovo?

Per individuare bene questo comandamento nel suo aspetto di novità, esaminiamo le caratteristiche particolari cui Gesù si riferisce, proprio per la sua esperienza, nel suo insegnamento; e, secondo, esaminiamo il fondamento che egli indica, perché questo è essenziale per capire bene anche le caratteristiche, le situazioni concrete.

Partiamo da come Gesù ha vissuto questo comandamento, dato che egli dice: “come io vi ho amato”. Quindi è tenendo fisso lo sguardo su di lui, analizzando il modo come Gesù ha amato, che siamo sollecitati a individuare le caratteristiche particolari.

Come Gesù ha amato. Quali sono le circostanze? Perché è di lì che appare la particolarità. Le circostanze sono quelle dettate, fissate, dalla sua morte, dalla sua passione. Giovanni nell’introdurre le ultime fasi della vita di Gesù usa questa espressione: “Avendo amati i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine”; che è una formula plurivalente: “sino alla fine” vuol dire certo fino alla fine della sua vita, ma anche fino all’estremo, cioè con le espressioni massime che la situazione storica gli ha consentito.

Ma questa sarebbe ancora un’espressione generica. Vediamo concretamente cosa ha voluto dire questo.

Il dramma che Gesù ha vissuto e che gli evangelisti descrivono nell’agonia io credo abbia riguardato proprio questo aspetto, che era il punto centrale del suo messaggio e che Gesù si è trovato a vivere in condizioni drammatiche. Abbiamo già visto questo nel periodo di Pasqua, ma lo richiamo brevemente, proprio per coglierne l’indicazione specifica del comandamento nuovo.

Il dramma che Gesù ha vissuto ha riguardato precisamente la possibilità di continuare ad amare in quel modo radicale, gratuito, che egli aveva insegnato. Di continuare a farlo anche nella situazione drammatica in cui si veniva a trovare: della crocifissione prevedibile, o anche della lapidazione, in un primo momento. Com’era possibile continuare ad amare così, nel perdono, nel porgere l’altra guancia, nell’offrire misericordia a chi fa del male in questa situazione così radicalmente violenta?

Certamente Gesù ha avuto il dubbio di poterlo fare. Dobbiamo entrare all’interno di questi meccanismi, anche psicologici, di Gesù. Si sarà chiesto: come sarà possibile continuare ad amare così? Gesù aveva intuito che quella era la legge fondamentale della vita, l’aveva dettagliatamente indicata, l’aveva anche vissuta, ma ora si veniva a trovare in una situazione così estrema, di violenza, di odio, di ingiustizia soprattutto, di opposizione al volere di Dio, che suscitava certamente il dubbio: sarà possibile continuare ad amare così? Questo è stato il dramma che Gesù ha vissuto fino a sudare sangue e ad abbandonarsi con fiducia: “La tua volontà si compia. Se a questo mi chiami, certo sarà possibile, perché questo è il tuo volere: che io continui ad amare”.

Questo è il primo tratto fondamentale: quando Gesù dice ‘comandamento nuovo’ a questo si riferisce: cioè al continuare ad amare anche quando non c’è risposta, anzi, quando c’è la violenza e l’odio come risposta, quando non c’è nessun’altra prospettiva se non l’offerta gratuita di un perdono insensato, cioè che lì non ha nessun valore, nessun senso, non produce nulla come tale. A cosa può servire perdonare uno che ti uccide, se non gli ferma la mano della violenza? A cosa può servire? Eppure proprio questo aspetto è quello che rende significativa la morte di Gesù, anzi, che l’ha resa salvifica, perché (più volte l’ho ricordato ma è importante, perché ogni tanto ritornano i vecchi modelli della sofferenza come redentrice) Gesù non ci ha salvato perché ha sofferto, ma perché ha continuato ad amare anche quando la sofferenza giungeva alle forme assurde della violenza ingiusta e gratuita. Per questo ci ha salvato, perché ha continuato ad amare così.

E questo è stato sempre il segno della fedeltà al Vangelo. Lungo i secoli del cristianesimo le forme specifiche che ha assunto la testimonianza del Vangelo è stata questa. Le altre sono generiche, ma questa è stata proprio specifica della testimonianza del Vangelo, tanto è vero che quando avveniva le persone venivano proclamate sante indipendentemente dai processi, dall’esame della vita precedente: anche se fino a poco tempo prima uno era peccatore, se moriva con questo atteggiamento veniva considerato martire del Vangelo e già venerato, cioè proposto come modello. Perché appunto è il dato specifico.

Evidentemente non dobbiamo considerare solo queste forme estreme, radicali. Queste non possono essere provocate, anche se sapete che ci sono stati nel cristianesimo anche tentativi di giustificare la provocazione del martirio, quasi quasi di favorirlo, di gettarsi nella mischia proprio per andare incontro al martirio. Questo è stato sempre riconosciuto illegittimo, anche se ci sono stati a volte dei momenti di incertezza. Perché quello che è decisivo è la testimonianza dell’amore: non è la morte come tale, non è la sofferenza per il Vangelo, è esprimere l’amore. Se non c’è la possibilità di esprimere l’amore, anche verso coloro che uccidono, che fanno del male, non ha senso il morire. E’ l’espressione dell’amore che è fondamentale.

Ora, dicevo, non possiamo certo provocare queste situazioni estreme per poter mettere alla prova la nostra fedeltà, ma nella nostra vita ci sono numerose circostanze in cui possiamo esercitarci, verificare la nostra volontà di aderire a Gesù, di tener fisso lo sguardo su di lui, di essere suoi discepoli. E le circostanze della nostra vita sono numerosissime, è sufficiente avere gli occhi aperti e ci accorgiamo subito di situazioni di incomprensione, di umiliazione, di emarginazione, di mancanza di fiducia. Esercitarci a esprimere positività in quelle situazioni, a esprimere gesti di amore in quelle circostanze, questa è proprio la garanzia, che diventa poi la verifica, perché scopriamo poi a quale forma di vita, a quale ricchezza, a quale gioia (per dirlo proprio con la parola di Gesù) conduce questa disponibilità a offrire vita, a esprimere amore anche nelle situazioni negative.

Ma questo sarebbe ancora insufficiente per capire la novità del comandamento, perché questo può essere ancora vissuto come esecuzione del volere di Dio, come un semplice impegno da assumere. Cioè potremmo ancora viverlo come un dovere morale e allora l’amore perderebbe la sua carica di libertà, non sarebbe il fiorire in noi di una grazia, cioè di un’azione accolta, di una forza di vita a cui ci apriamo, di un’energia dello Spirito che accogliamo in noi, mentre questo è il tratto più specifico della novità. Gli apostoli hanno cominciato a esprimere questa loro esperienza appunto dopo essere stati travolti dalla forza dello Spirito: allora hanno cominciato a vivere i rapporti tra loro in un modo inedito e hanno cominciato a parlare di agape.

Quindi è necessario avere la consapevolezza del fondamento di questa possibilità: non è per compiere un dovere, non è perché Dio ce l’ha comandato: è perché in noi lo Spirito opera le opere di Dio, come diceva Giovanni, o pronuncia le parole di Dio. Cioè la ragione, il fondamento, è l’azione di Dio in noi accolta nella preghiera, nella contemplazione, nella sintonia con la sua presenza. Questo è il punto specifico.

Gesù l’ha espresso in modo molto chiaro in Giovanni, in quei versetti del capitolo 15 che più volte vi ho ricordato: “Come il Padre ha amato me e io rimango nel suo amore, così ho amato voi”. Quindi vedete, non è semplicemente una modalità storica a cui dobbiamo riferirci, cioè l’amare quando non ci sono risposte, quando non c’è gratificazione, anzi, quando c’è odio. Non è solamente questo che è fondamentale. “Come il Padre ha amato me e io rimango nel suo amore, così ho amato voi, rimanete nel mio amore”. E poi al v.17 conclude con questa stessa formula: “Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri”. E’ proprio la stessa formulazione, però qui è indicato con chiarezza il fondamento. Quindi non è per un semplice impegno che assumiamo di fronte alla volontà di Dio: è per la forza dello Spirito che ci lasciamo condurre fino a consentire che in noi si esprima con la gratuità e l’oblatività del suo amore.

Ma questo richiede un atteggiamento particolare di ascolto-accoglienza, il restare in sintonia continua con la parola-azione di Dio in noi.

Questo poi è quello che Gesù diceva il ‘pregare sempre’. Cos’è pregare sempre? Non è dire delle formule, pregare sempre è essere sempre alla sua presenza, vivere consapevolmente l’accoglienza della sua azione. E questo non è una cosa impossibile, non è nemmeno estremamente difficile, almeno per certi periodi realmente possiamo pervenire a questa consapevolezza: tutto quello che noi siamo ci è continuamente donato, ridonato, continuamente offerto, riofferto. E se restiamo in sintonia, nella stessa lunghezza d’onda, in noi si rinnova questa meraviglia della vita del figlio che in noi si esprime. E fiorisce. La vita del figlio che in noi cresce: si esprime in una qualità nuova di rapporti, in una forma nuova di amore.

E così recuperiamo quella legge che ho ricordato all’inizio, cioè del processo: non è una qualità fissata una volta per sempre, è un’avventura che ogni giorno ha una tappa inedita. Per cui ogni giorno noi possiamo aprire gli occhi e interrogarci: quale forma nuova di amore oggi la vita potrà esprimere in me? E possiamo con certezza attenderla, perché è certo che la vita procede, che non è mai fissata nei traguardi raggiunti. Quale forma di amore oggi la vita potrà esprimere in me? E attenderla con gioia, con curiosità anche, perché se restiamo in questa lunghezza d’onda certamente ci saranno delle forme di tenerezza, di oblatività, di ascolto, di misericordia che fioriranno in noi, suscitando la nostra stessa meraviglia, perché non dipendono dalle nostre radici e neppure dal nostro terreno, ma da una forza che continuamente ci investe e sa suscitare in noi forme straordinariamente nuove di vita e di amore.

Celebriamo l’eucarestia, che è un sacramento di questa novità dell’amore. Chiediamo allora al Signore in questa celebrazione di essere sempre attenti alla parola-azione che in noi vuole esprimersi e creare in noi modalità nuove di esistenza, quella appunto dei figli di Dio.

13 maggio 2001