da “Oreundici” di ottobre 2006
Essere pace è la condizione necessaria per essere costruttori di pace. Tutti i trattati, le convocazioni per parlare della pace, tutte le iniziative falliscono o perché non arrivano ad essere efficaci nella realtà o perché i loro protagonisti non sono esseri pacificati. Io credo che questa sia la spiegazione per cui la pace resta generalmente un desiderio. Confesso che mi faccio spesso la domanda: io sono pace? sono tra quelli che hanno raggiunto l’identità del discepolo e diffondono la pace con la sola presenza? entrano in una casa, si presentano a un convegno di amici, e in tutte le occasioni portano pace? Premetto che a mettere guerra nel nostro cuore sono i desideri e le relazioni. La società attuale non è pacifica, è in stato di guerra perché il suo metodo di suscitare i desideri per vendere e consumare è un metodo violento. Mette in agitazione i cuori e non permette loro di riposare in se stessi finché non posseggono l’oggetto desiderato che potrebbe anche essere una persona. L’oggetto una volta ottenuto non è pacificatore perché porta in sé il vuoto dell’altro generando scontento e delusione. Diman tristezza e noia recheran le ore ha cantato Giacomo Leopardi. D’altra parte come è possibile non accogliere quei desideri se l’uomo è essenzialmente desiderio e relazione? E’ possibile seguendo il metodo francescano che è quello di trasformare le relazioni con le cose da relazione concupiscente (voglio possedere, devo possedere l’oggetto del desiderio) in relazione contemplativa (mi fermo a contemplare la bellezza, la perfezione, l’armonia dell’oggetto del desiderio). La prima trasmette tristezza e noia, la seconda gioia e libertà. Ma questo vuol dire essere poveri e santi. Francesco segue povero e scalzo Gesù che ha scoperto sulla strada povero e scalzo. E parlando delle relazioni umane è impossibile che non mettano guerra nel nostro cuore, a cominciare da quelle nella famiglia. Tutte le persone in qualche momento si sono credute vittime di ingiustizie e spesso non è un’esagerazione della fantasia, ma invece di elaborare questa convinzione ricorrono ad “attacchi psicologici come la maldicenza e l’ostracismo sociale e lo spostamento che consiste nello sfogare la propria rabbia su una persona diversa da quella che l’ha provocata che non si ha il coraggio di affrontare”(1).
Credo che per mettere pace nel cuore non basta perdonare come spesso viene consigliato. Bisogna elaborare, chiarire, sciogliere il nodo. Nessuno dimentica un torto ricevuto specialmente quando questo ha avuto un rilievo importante nella piccola storia della nostra vita. Bisogna che questi torti da memorie avvelenate diventino carezzevoli, liete come il ricordo di una passeggiata sulle montagne con una compagna di scuola che vi affascinava. Ma possono diventare liete le memorie di fatti tanto duri che hanno sconvolto la nostra vita e messa su un’altra rotta? Prima di tutto avendo chiaro che noi non siamo e non saremo mai vittime innocenti, qualunque sia il torto ricevuto. Pensiamo a fondo alla storia di Gesù che è il modello più trasparente della vittima. Pensiamo alle sue continue provocazioni di violare la legge, lavorare di sabato, anche se il lavoro era dare la vita, mettersi a tavola con i peccatori e gli stranieri, offendere la sacralità del tempio con invettive e violenza contro quelli che avevano messo banchetti e tendaggi nella zona permessa loro. La reazione dei sacerdoti non poteva che essere la condanna a morte perché questo agire non rappresentava altro che empietà, un rifiuto di obbedire alla legge così come suona. Per questo nel racconto dell’esecuzione del Figlio dell’uomo si fa ricordo di una morte volontariamente accettata. I veri martiri non cadono in un tranello, sanno fin da principio di entrare in un cammino pericoloso, vogliono abbattere un muro, aprire un varco, interrompere la continuità dell’universo, prevedono di non ricevere offerte floreali, ammirazione e gratitudine. E i persecutori non sono assetati di sangue ma fedeli servitori di ciò che credono essere la verità e addirittura si sentono i salvatori del popolo. Si tratta qui di fatti grandiosi ed eroici; ma in tutti i casi solo sciogliendo il nodo la pace entra nell’intimo della persona e fuga l’amarezza nascosta nelle piaghe più remote del cuore.
Appare sempre più evidente il bisogno dell’uomo di essere toccato, ferito dall’altro che soffre o che esige da lui di essere guardato e capito in tutte le sue esigenze vere. Questa corsa alla guerra attraverso le armi e l’economia può essere arrestata solamente se si fermano quelli che sono travolti nella corsa, e si aiutano a recuperare quella capacità essenziale che è stata lasciata sui bordi della strada per entrare nella corsa folle. Bisogna che precedano in questo recupero quelli che sono abituati abituati a pensare e a scrivere senza il fine di servire il sistema. Bisogna che vincano un certo pudore molto diffuso tra gli intellettuali dell’occidente: che non si vergognino di essere umani e capaci di ascoltare quei racconti troppo terreni di coloro che hanno lo stomaco vuoto, che non hanno lavoro e si sentono più numeri che persone. Che non si vergognino ad ascoltare la donna diventata unicamente oggetto erotico, quando un piccolo barlume di luce la sveglia dal sonno e pensa che oltre alla possibilità di diventare una ‘executive’ (cioè da oggetto scartabile oggetto di lusso) ha la possibilità di diventare costruttrice di amore, capace di mettere nel mondo dinamiche di amore senza il quale la pace resta un’utopia sempre più lontana.
1. U. Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli