da “Oreundici” di giugno 2007
Accingendomi a parlare di Gesù, provo una grande dolcezza con un fondo un po’ amaro. Rappresento la dolcezza in un’immagine. Vedo un marinaio immenso dritto su una roccia che tiene tra le sue mani rozze il capo di una gomena a cui è attaccata una barchetta sbattuta dalle onde del mare, quella barchetta sono io. Mi sento tratto in salvo da quella ostinata resistenza del marinaio che non si è arreso quando la violenza dei flutti bruciava le sue mani che reggevano la corda. Questa sua tenace fedeltà ha reso saldo il mio cuore nella fede e nella speranza. Quante figure mi offre la fantasia per raccontare la storia di questa amicizia che ha attraversato i vari decenni della mia esistenza! La vena di amarezza nasce dal fatto che le parole raffreddano sempre l’onda degli affetti. Dopo questa premessa cercherò di parlare del Gesù redentore, salvatore dell’umanità, del Gesù teologico e del Gesù quotidiano: in ognuna delle manifestazioni della sua esistenza, il mio pensiero scorre verso l’altra: è la conseguenza dei limiti del nostro pensiero che ha bisogno di scomporre in parti per capire la sintesi. Per rappresentare il Gesù redentore ricorro al discorso tenuto a Parigi dall’ebreo Levinas, sollecitato dai suoi colleghi universitari che si dichiarano credenti cattolici (1). Levinas non ha buon sangue con il cristianesimo e il motivo è che vi trova deformate e male interpretate le rivelazioni di Dio contenute nell’Antico Testamento. Da un’analisi seria e scevra da intenzioni di partenza, troveremo la ragione di questa sua antipatia. Ma per motivi di amicizia e di gratitudine verso cattolici che hanno protetto la sua famiglia in tempo di persecuzione, accetta di tenere la conferenza dal titolo Un Dio uomo. E la fonte da cui trae la sua presentazione del Dio-uomo è il profeta Isaia, soprattutto nel quarto canto del servo sofferente (Is 53). Levinas scopre l’intenzione di rappresentare il Dio uomo sotto questo aspetto citando le parole stesse del profeta (Is 57,15): In un luogo eccelso e santo io dimoro – ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati – per ravvivare lo spirito degli umili – e rianimare il cuore degli oppressi. Ecco le parole di Levinas-Isaia: “Manifestarsi come umile, alleato del vinto, del povero, del perseguitato significa appunto non entrare nell’ordine. In questa disfatta, in questa timidezza che non osa osare, con questa sollecitazione che non ha la sfacciataggine di sollecitare e che è la non audacia stessa, con questa sollecitudine di mendicante e di senza patria, che non ha dove posare la testa alla mercè del sì e del no di colui che lo accoglie (Lc 10) l’umiltà scombina in maniera assoluta, non è del mondo. Presentarsi in questa povertà dell’esiliato… l’essere una volta svelato anche se parzialmente anche nel mistero diviene immanente”. Di questa immanenza ha sempre avuto paura la chiesa, forse perché chi la affermava pretendeva mettere in dubbio la divinità di Gesù, il suo essere divino. Ma oggi siamo nel dopo morte della filosofia dell’essere e nel-la condizione di comprendere meglio questa discesa di Dio in Gesù che troviamo nell’inno cristiano riportato nella lettera di Paolo ai Filippesi: umiliò se stesso fatto obbediente fino alla croce (Fil 2). Questo annunzio cristiano della redenzione che Gesù ha portato all’umanità mettendola in un linguaggio più semplice, più umano, più accessibile e più universale è in queste parole. Ridurre la redenzione a semplice cancellazione dei peccati non è certamente il suo vero senso. Gesù vuole liberare ogni persona dall’io umano allo stato brado, selvaggio, che deve essere sostituito: è questo il senso del messaggio di Gesù, bisogna morire e rinascere. Che l’umiliazione di Dio abbia messo al mondo una forza di liberazione dell’uomo dal suo egoismo, dall’io assassino per trasformarlo nell’io sconvolto dall’apparizione dell’altro devastato dalla fame, ferito dalle nostre armi fratricide è la nostra fede. Il Gesù teologico è quello trascendente che la chiesa ha definito in vari concili come pienamente uomo e pienamente Dio, in una unione che ha definito unione ipostatica. E chi ha messo la propria vita al suo seguito e vuole aver parte alla realizzazione del suo progetto Regno di Dio ha tutte le prove per aderire con gioia e con una fede sempre più salda a questo Essere unico che sta fra noi con noi, e in noi ma bisogna dire basta a una maniera teorica di parlare di Gesù. Non possiamo pensare che lo Spirito Santo abbia suggerito a un laico credente e forse non praticante Olmi di inchiodare le pagine del libro perché finalmente ci mettiamo all’ascolto di Lui e lasciando a Lui di decidere quando comincia e termina il dialogo? Il teologo oggi deve cercare le orme di Gesù sulle nostre strade perché mantenendo gli occhi verso la gloria di Dio Padre ha descritto spesso il re vittorioso e ha fatto della croce segno di vittoria affidandola alla nostra volgarità di mercanti perché la coprissimo di oro e di pietre preziose; e il legno bagnato di sangue è scomparso sotto il peso dell’oro. Egli continua a camminare a piedi scalzi, pellegrino fra i pellegrini, ed è colpito dai sassi e oggetto di scherni e di sputi. E chi cammina con lui sa che questo è il segno che Lui è fra loro e con loro, e sono le sue stesse parole a rassicurare i suoi compagni di viaggio. Non abbiate paura, io ci sono. Il teologo di oggi cerca le parole per parlare di Lui può trovarle solo nell’immanenza ed è solo quella scelta che è autentica: non pensò di dover conservare gelosamente il fatto di essere uguale a Dio, ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini, umiliò se stesso (Fil 5,11). Il perché e il dopo è opportuno che i teologi lo chiedano a Levinas e a quanti uomini cercano la verità, non fra le stelle ma nella direzione verso la quale camminano i piedi degli uomini. Veramente l’uomo Gesù, vivendo la vita dei semplici, dei poveri, quelli che il film di Olmi rappresenta in quelle facce così lontane dal modello standard dei grandi pittori del rinascimento, non ha temuto di mescolarsi agli esclusi da regole religiose e di farsi toccare da mani che potevano renderlo impuro e impedirgli di andare al tempio. Questa umanità così comune corre sempre il rischio di interpretazioni volgari e scandalose. In tutte le epoche si è rappresentato un Gesù umano come tutti noi, e questi noi sono quelli che hanno rotto totalmente con ogni legge dell’esistenza. Di fronte a queste volgarità bisogna riconoscere lealmente che il cristianesimo non ha aiutato a vivere la relazione uomo-donna con quella normalità e quella fecondità che è iscritta nella stessa natura. E lo stupendo quadro della Maddalena che si sente ricostruita bevendo le parole dell’uomo Gesù, viene così deturpata da soggetti della nostra generazione che, castrati della facoltà di essere amici ricorrono sempre più desolatamente alla comunicazione possibile solo attraverso il sesso. E non c’è altro. Prendo l’occasione, parlando del Gesù quotidiano mescolato fra la gente che lavora e dopo il lavoro se la passa al bar o all’osteria, che l’amicizia con Lui ha liberato in me il bisogno dell’amicizia. E ricordo spesso e con gioia nell’epilogo della mia vita l’episodio raccontato da Luca (Lc 7,36 e seguenti). L’uomo che ha invitato a pranzo Gesù è un fariseo che paga un debito con il suo terapeuta, invitandolo a pranzo. È molto probabile che la sua conoscenza della donna tradisca una relazione con lei come cliente, e non capisce come Gesù un uomo di Dio si lasci toccare da lei che solo con il suo avvicinarsi lo rende impuro. E questa donna scopre una relazione nuova, quella che inconsciamente sognava ad ogni incontro con l’uomo, e che è l’amicizia. Il perdono dei peccati forse non era quello che l’aveva spinta a cercare entrando furtivamente e quasi con prepotenza nella casa del fariseo Gesù. Che lei cercasse altro da questo perdono sono le stesse parole di Gesù che lo scoprono: Tu non mi hai dato i segni dell’amicizia e lei finalmente ha scoperto l’amico. Gaudy, la ragazza che molti conoscono attraverso il mio libro Camminando s’apre cammino, parlando del giovane da cui aveva avuto un figlio e che si gettava su lei per possederla esclama: non mi ha mai visto. E questa stessa confessione in altre parole ho colto frequentemente da donne di altre condizioni sociali e io compresi che in queste parole la ragazza venezuelana annunziava il nascere dell’amicizia. Finchè la coppia non sarà capace di ripescare l’amicizia naufragata nella palude del consumismo, non sarà possibile assicurare l’esistenza della coppia. Finchè chi ha scelto Cristo come modello unico e come guida della sua vita non ha capito che la rivelazione più vera che può trasmettere del Cristo è quella dell’amicizia, non trasmetterà al mondo il Cristo vero nonostante la sua profonda erudizione. La sete di amore è lo stimolo più forte che spinge la persona oltre le esperienze vissute che hanno solo accresciuto la sua sete. E solo nel Cristo possiamo attingere il dono di questa amicizia che ci schiude il senso di quelle parole così crude e degradanti che Gesù lancia a quelli che hanno capito di non avere altra scelta se non quella di affidare a Lui il senso vero dell’esistenza: vi sono eunuchi che sono nati così dal ventre della madre, ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e ve ne sono altri che si sono fatti eunuchi per il Regno dei Cieli. Chi può capire capisca (Mt19.12). L’accettazione del celibato fu per me un’umiliazione e una vergogna finchè la donna fatta “oggetto consumista da usare e gettare” non mi fece scoprire che dall’incontro di due vergogne sorgeva quel misterioso splendido fiore che chiamiamo amicizia. È solo questa amicizia, lontana dalla repressione della nostra sensibilità e dal libertinaggio, che può rendere attraente oggi il dono di una vita giovanile alla causa del Regno.
Nota 1. Le citazioni sono tratte dal libro di Emmanuel Levinas “Tra noi”, Jaka Book, capitolo IV- Un Dio uomo?