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“CUSTODITI DA UNA REGOLA DI VITA PERSONALE”

“L’uomo di Dio si trova a vivere fra le cose più serie del mondo – che sono la preghiera, la relazione con Dio e i segni di questa relazione – con la sensazione di non fare delle cose serie e importanti. Questo mondo soprannaturale gli si svaluta giorno per giorno fra le mani, come una moneta in corso d’inflazione. E gli si svaluta tra le mani per la diserzione dell’uomo. Il dramma dell’uomo di Dio è quello di scoprirsi senza Dio, perché senza mondo, senza uomo, senza storia. Scoprendosi senza Dio, tutte le strutture fatte per accoglierlo restano terribilmente vuote e inutili e i gesti rappresentativi dell’incontro si fanno necessariamente istrionici”.
Ho scelto queste parole di fratel Arturo Paoli, oggi 95enne, per introdurre il nostro discorso sullo “stile di vita del prete” perché mi pare spieghino bene un detto popolare tanto diffuso quanto significativo: “i preti predicano bene e razzolano male”.
Personalmente, da giovane prete, ho vissuto in modo profondo il dilemma di questa contraddizione: mi domandavo che cosa comunicava il mio modo di essere, che cosa la gente poteva cogliere dal mio comportamento, come potessero risuonare le cose che dicevo. Sentivo che la formazione che avevo ricevuto negli anni del seminario non mi aveva avvicinato alle persone, e neppure a me stesso: le lezioni in latino, le questioni teologiche così lontane dagli interessi della gente e dal mondo, un linguaggio astratto e difficile. D’altra parte avevo vissuto la mia infanzia in un piccolo paese dell’entroterra siciliano dove l’ambiente era molto rigido ma anche molto vero: era un ambiente dove si diceva una cosa e non se ne faceva un’altra. C’era rigore ma anche molta attenzione e affetto tra le persone. In quel contesto un anziano sacerdote che mi piace ricordare, don Cosentino, mi aveva insegnato che per il prete il prossimo più prossimo sono gli altri preti.
Pur di avvicinarmi alla mentalità della gente correvo il rischio di apparire più laico che clericale, e qualche volta il mio comportamento entrava in conflitto con l’immagine di prete che le persone avevano in mente e si aspettavano da me. All’interno della Chiesa mi sono discostato dai modelli più ambiti e attesi: il collegio Capranica, dove ho avuto la fortuna di studiare e da cui ho appreso molte cose buone, era la fucina della carriera diplomatica e di quella universitaria, ma io me ne sentivo lontano, non mi attraevano e anzi mi sono avvicinato a un piccolo gruppo di seguaci di Charles de Foucauld. Cercavo qualcosa di autentico, credevo nell’essenziale delle scelte che avevo fatto ma mi rendevo conto che i modelli tradizionali erano inadeguati, sia per la mia identità di prete che per i fedeli ai quali dovevo parlare con la mia vita.
Il tema della ‘regola di vita’ del prete mi sembra molto interessante se non ci si limita a riflettere sul comportamento, sugli orari, sull’organizzazione del tempo e dei luoghi di vita, ma si analizza il modello di spiritualità e di umanità che la persona si porta dentro.
La scelta di approfondire gli studi di psicologia mi è stata di grande aiuto per entrare in una logica diversa, per scoprire poco a poco un mio personale stile di vita, cioè la mia modalità di vivere l’identità di prete. Che cosa intendo dire con l’espressione “stile di vita”? Lo stile di vita è il frutto di una lunga ricerca che richiede la capacità di abbandonare i modelli precostituiti cui uniformare la propria vita per dare forma, poco a poco, ad un proprio modo di vivere la spiritualità e l’umanità. Il consiglio evangelico dell’obbedienza si traduce nell’obbedienza alla vita che si esprime in te.
Il modello tradizionale proposto ai sacerdoti è quello monacale scandito dalla lettura del breviario, dalla meditazione del mattino, da orari strutturati e ripetitivi. La funzione perseguita da questo modello era quella di strutturare la personalità del prete, integrando le componenti razionali e quelle irrazionali della sua identità all’interno di un modello. Storicamente essa ha avuto un grande valore soprattutto nei momenti in cui il livello culturale della società e del clero era molto basso.
Oggi però le scienze umane ci dicono che è importante un cammino personale verso la propria identità, un processo che si sviluppi nel tempo attraverso progressive identificazioni e una continua evoluzione verso la vita. Scegliendo e selezionando gli aspetti delle varie spiritualità, ciascuno deve costruire il modello che vada bene per sé, ferma restando una scelta di fondo ispirata al vangelo.
Nel cammino verso la ricerca del proprio stile di vita, si incontrano elementi di aiuto e altri di ostacolo. Provo ad elencarne alcuni, che sono valsi nella mia personale esperienza.
Certamente mi è sempre stata di aiuto la capacità critica e autocritica. L’uso della capacità critica comporta la rinuncia ad una adesione passiva alle forme con cui le persone, le istituzioni, le tradizioni interpretano le verità del vangelo. In ogni situazione sono andato alla ricerca degli aspetti positivi che potevano aiutarmi a dare forma alla mia umanità e alla mia spiritualità, così come la persona che desidera arredare la propria casa va in giro dai rigattieri, nei mercatini, dagli antiquari alla ricerca dei pezzi che si addicono all’ambiente che vuole realizzare e si lascia ispirare dagli oggetti che vede esposti.
Naturalmente sono state alcune persone che io stimavo molto a offrirmi l’aiuto più grande, attraverso la loro frequentazione, primi fra tutti Arturo Paoli, Carlo Carretto, Réné Voillaume, Bernhard Häring, Benedetto Calati. Queste figure hanno contribuito molto alla definizione della mia identità e del mio stile di vita.
Un secondo elemento importante è l’investimento su se stessi per curare la propria integrazione personale. Un aspetto negativo della formazione religiosa è l’alienazione nell’altro. Il comportamento che si propone a modello è quello di annullare se stessi per l’altro: si propone uno stile di servizio al prossimo, di dedizione, di abnegazione totale che finisce con il frantumare la persona invece che permetterle di fare realmente dono di se stessa. Le scienze umane hanno portato lentamente a capire che la padronanza di sé, un sereno e positivo rapporto con il vivere e con la vita sono la premessa indispensabile per la relazione e la dedizione verso l’altro. In mancanza di esse l’altro finisce col pagare un prezzo molto alto per ricevere ciò che non è un dono ma una sofferenza.
Attraverso le scienze umane ho capito che dovevo recuperare le parti essenziali di me per poterle trasformare in dono e in relazione con l’altro (con la ‘a’ minuscola ma anche maiuscola).
Il processo di integrazione della persona può essere rappresentato dalla ricerca di un equilibrio tra le tre dimensioni che ne caratterizzano la vita psichica e spirituale: l’idealità, il desiderio e la realtà. L’idealità comprende il mondo dei valori e degli ideali che si vogliono realizzare, il progetto di vita ideale che si persegue; la realtà è il contesto reale nel quale si vive, si pensa, si spende la propria esistenza, spesso molto lontano dal modello ideale sognato. Il desiderio è il potenziale punto di raccordo e incontro tra idealità e realtà, cioè l’aspirazione profonda che guida la persona nel proprio stare al mondo e nel rapporto con la vita. In altre parole ciò che chiamo ‘desiderio’ sono le parti migliori, più profonde e personali, che appartengono a ciascuno e che devono essere recuperate lentamente per poter diventare dono.
Non si tratta allora di seguire un modello precostituito, ma di costruire giorno per giorno il proprio stile di vita che nasce dall’equilibrio tra l’idealità, il desiderio e il rapporto con la realtà e con l’altro (o Altro) che ci circonda.
Facendo un ulteriore passo in avanti, la ricerca del proprio stile di vita da parte di un prete si arricchisce di due altri aspetti: le scelte di vita nel quotidiano e il confronto con il vangelo.
Rispetto al quotidiano, molti elementi che ritengo importanti appartengono alla spiritualità dei piccoli fratelli di Charles de Foucauld. Li riassumo così: la vita semplice; la cura per l’amicizia, nei confronti di tutti e in ogni situazione; la dimensione contemplativa, cioè il grande spazio riservato alla preghiera e all’Adorazione (potremmo dire all’ascolto della vita) durante la giornata; la sobrietà del vivere, cioè la scelta attenta all’essenzialità nell’abitazione, nell’abbigliamento, nell’utilizzo dei mezzi tecnologici.
Ritengo importanti altre due dimensioni del quotidiano: l’attenzione al corpo, cioè la cura della persona nella sua integrità, e il gusto del bello, cioè la capacità di cogliere e gustare la bellezza come armonia.
Il confronto con il vangelo è l’orizzonte che può trasformare lo stile di vita in profezia. Molto spesso si parla di radicalità evangelica, per sottolineare il carattere estremista di alcune parole, gesti, comportamenti tenuti da Gesù nella sua vita adulta. Io preferisco parlare di irrazionalità del vangelo, nel senso che le parole, i gesti, le azioni di Gesù mi hanno sempre colpito perché sfuggono a qualunque logica umana.
Le proposte utopiche del vangelo sono la prova migliore della sua autenticità. Nei vangeli ci sono molte affermazioni apparentemente assurde, decisamente difficili da mettere in pratica ma certamente molto affascinanti poiché appaiono come sfide per la nostra fede e per la nostra vita.
Il confronto con queste dimensioni del vangelo si nutre attraverso la condivisione con gli altri, soprattutto gli altri più lontani e diversi. Coloro che Gesù ha voluto rappresentare con il termine ‘poveri’. Sono sempre stato colpito e mi ha sempre interrogato la povertà come sofferenza, le persone che soffrono perché prive di qualcosa di essenziale per vivere. In realtà tutte le forme di povertà che ci circondano – materiali, spirituali, psichiche – sono espressione di una unica grande sofferenza, quella che nega alla persona la dignità di essere uomo. La povertà è la condizione di tutti coloro che sono privati del gusto del vivere, della profondità e del piacere della vita.
Allora, ritornando al nostro tema dello stile di vita, dobbiamo renderci conto che qui in Occidente, che è la parte più evoluta e moderna del mondo, molto spesso noi non viviamo ma consumiamo: consumiamo il tempo, gli oggetti, le persone. Il prete dovrebbe, attraverso la sua vita, mandare un messaggio contrario a questa società che consuma ma non vive, dovrebbe annunciare l’aspetto più bello del cristianesimo che è la ricchezza della vita, rappresentata dalla Resurrezione.
Se però la sua vita è consumata dagli oggetti, dal tempo, dall’incapacità di vivere una vita dignitosa come persona umana, allora scatta il doppio messaggio. Il messaggio evangelico viene strumentalizzato, passa agli altri ma viene deformato e filtrato da uno specchio sporco.
Lo stile di vita dovrebbe essere uno specchio trasparente che riflette senza ombre l’irrazionalità del vangelo. Se il prete non vuole mandare un doppio messaggio, nel quale il comportamento contrasta con le parole, è importante curare lo stile di vita, che è fatto di tante piccole sfumature. La qualità dello stile di vita non emerge tanto dalle dichiarazioni solenni o dai comportamenti ufficiali, ma dai gesti quotidiani che gli altri colgono in noi, soprattutto nei momenti più difficili. Sono i momenti di crisi quelli in cui si può notare veramente la qualità e lo stile di una persona, frutto di un lavoro fatto su di sé nel corso della vita.
Veniamo allora al tema della crisi, trasversale a tutto l’argomento trattato poiché è proprio l’esperienza della crisi nella identità, nel ruolo, nello stile del prete a suscitare questa riflessione. Io credo che dobbiamo distinguere tra gli indicatori della crisi e l’essenza profonda della crisi stessa.
Gli indicatori sono numerosi e facilmente riconoscibili: la gestione e la qualità del tempo, il rapporto con gli spazi, la relazione con il proprio corpo, con gli oggetti, con il denaro, con le persone. L’affettività è certamente l’aspetto più complesso e merita una attenzione e una riflessione approfondita.
L’essenza della crisi sta nell’esperienza profonda che la persona fa della vita, del mistero, del corpo, del proprio desiderio, dell’affettività. Possiamo parlare di crisi quando il disagio e la sofferenza impediscono alla persona di vivere in modo sereno ed armonico queste dimensioni fondamentali.
Certamente è necessario distinguere ancora tra le crisi provocate da eventi esterni traumatici (la morte, la malattia, un cambiamento brusco ed improvviso) e quelle che sono espressione di un malessere profondo. In entrambi i casi lo stile di vita dovrà essere ripensato, ma nel secondo potrà essere necessario un intervento più profondo e spesso l’accompagnamento da parte di una persona esperta.
A margine di questo discorso sulla crisi, vorrei aggiungere qualche accenno sulla crisi affettiva del prete. Il celibato è un capitolo molto difficile e complesso sul quale bisognerebbe riflettere e approfondire molto.
In realtà che cosa significa celibato se non una umanità e una capacità di rapportarsi agli altri basata su un impegno profondo verso l’altro, in cui si superano le paure e si incontra veramente l’altra persona? Il rischio è che il celibato faccia scappare dall’altro, invece di incontrarlo in uno scambio reciproco di ricchezza e di sogni.
 Voglio concludere queste brevi considerazioni con un’ultima riflessione sulle modalità con cui lo stile di vita che si è lentamente definito si può esprimere nel proprio lavoro pastorale. Ancora una volta faccio riferimento alla mia personale esperienza, per evidenziare quattro elementi.
Il primo è la scelta di operare a partire dalle ‘sintonie’ con le persone che ho incontrato durante il mio cammino e con le quali ho coltivato relazioni di amicizia profonde e durature. Queste persone mi hanno aiutato lentamente a strutturare la mia identità rimandandomi dei messaggi che mi dicevano chi ero e ancora oggi mi aiutano a capire chi sono. Sono gli altri con il loro sguardo, le loro battute, i loro rimandi a farci cogliere la nostra giusta identità, lo stile di vita adatto a noi. Naturalmente ci deve sempre accompagnare l’inquietudine di andare oltre, il cercare modalità, luoghi, sfide sempre nuove dove cercare di attuare il messaggio del vangelo. Negli ultimi mi ha molto arricchito l’impegno assunto, attraverso l’associazione Ore undici che guido da trent’anni qui in Italia, con un piccolo gruppo di ragazzi brasiliani, a Foz do Iguaçu, nei luoghi dove fratel Arturo aveva vissuto per oltre venti anni. L’incontro con loro ha aperto in me nuovi orizzonti di umanità e nuove dimensioni per cogliere e sperimentare fino in fondo l’irrazionalità del vangelo. Il contatto con questi ragazzi che dalla vita non hanno avuto niente, che sono soli al mondo e non hanno nessuno che li pensa, sta diventando sempre di più il terreno fecondo dove sperimentare la forza dell’amore e dell’amicizia. Il progetto Madre Terra che abbiamo avviato con loro rappresenta un piccolo ma significativo laboratorio di vita oltre che di lavoro, sia per loro che per noi. La realtà brasiliana mi ha affascinato perché, pur tra mille difficoltà, ritardi, problemi e imprevisti, essa rappresenta uno stato nascente, dove si può ancora realizzare l’utopia che nella nostra vecchia Europa non troviamo più lo spazio mentale per sognare, né per noi né per gli altri.
Il secondo elemento è la scelta di lavorare seguendo il percorso dei ‘processi della vita’ e non quello delle tappe e dei risultati. Dal mio osservatorio professionale di psicologo, noto che oggi sono di moda le ‘terapie brevi’, il neocomportamentismo e la neurolinguistica che sono discipline psicoterapeutiche nate negli Stati Uniti, preoccupate di eliminare i sintomi del disagio e adeguare la persona alla realtà esterna con cui ha difficoltà a entrare in contatto. Lo stesso rischio è presente anche nella formazione alla spiritualità dove spesso non si presta abbastanza attenzione ai processi, cioè a comprendere dove sta veramente la persona, qual è il suo vero bisogno, qual è la parte del suo desiderio profondo nascosta dietro al bisogno che non riesce ad esprimersi e che ha bisogno di accoglienza per emergere. La formazione religiosa classica, procedendo per tappe e per tempi prefissati, non può assecondare le dinamiche dei processi di vita. Questi processi sono lenti, progrediscono non per tappe ma per evoluzione, non si può prevedere il risultato, né quando arriva né come arriva. Certamente però sono il percorso attraverso il quale la persona può veramente scoprire la propria identità e il proprio stile di vita, cioè la modalità con cui dare forma alle scelte di fondo e agli ideali.
Il terzo elemento è una conseguenza dei due che ho ora brevemente illustrato. Dalla psicologia ho imparato come funzionano i meccanismi della comunicazione interpersonale e ho appreso che la comunicazione ha effetti e efficacia diversa a seconda che si rivolga a un numero piccolo, grande o addirittura oceanico di persone. La dimensione ideale di un gruppo, per lavorare in modo efficace e profondo, è di otto – dieci persone, perché l’interazione è molto forte e lo scambio molto intenso. Nell’attività pastorale è importante tenere conto che la vita procede per piccoli numeri, che poi diventano grandi perché possono diventare fondamenta di processi di cambiamento più ampi.
Superato questo numero si entra in altre logiche, nelle quali diventano dominanti gli slogan, la suggestione, il pensiero magico. I grandi numeri rappresentano sicuramente un rischio per la Chiesa che spesso si trova a gestire platee vaste e indistinte. Quando la gente partecipa a grandi cerimonie o a grandi eventi si sente appartenere ad una ‘grande madre’ che li fa sentire buoni, ma poi tornando a casa le persone restano esattamente quelle di prima, con i loro problemi, le loro contraddizioni, le loro sofferenze. Ai grandi numeri è possibile comunicare informazioni, trasmettere messaggi seduttivi e quindi sottilmente manipolatori, ma è molto più difficile trasmettere l’amore. Tutti ricordiamo le parole con cui Papa Giovanni XXIII ha chiuso il concilio nel 1965:  attraverso poche battute è riuscito a trasmettere la sua attenzione e la sua tenerezza al mondo intero, ha fatto arrivare a tutti la carezza di Dio. La forza profetica delle sue parole era certamente il riflesso di uno stile di vita integro e integrato in profondità. Il suo stile di vita gli ha permesso di formulare un messaggio forte e efficace per tutti.
L’ultimo elemento è la cura costante e continua, direi quotidiana, al proprio stile di vita e alla propria ricerca spirituale. Purtroppo le istituzioni non sempre sono di aiuto, anzi qualche volta ostacolano la persona in questo processo attraverso la carriera, la dedizione alienata per gli altri, il prestigio, l’attivismo. Quello che aiuta è avere la capacità di frenare e creare spazi di ascolto, autocoscienza, consapevolezza. Dalle spiritualità orientali possiamo imparare molto perché sono orientate proprio alla consapevolezza. Ma anche il modello monastico contiene alcuni di questi valori essenziali che vanno recuperati: il silenzio delle parole ma anche dell’azione, che significa fermarsi, interrompere, aspettare, ascoltare; la povertà e la sobrietà fa sperimentare la bellezza delle cose; l’attenzione all’altro e all’Altro.

don Mario De Maio

(articolo pubblicato sulla rivista “Presbyteri” – N°6/2008)