Vai all'archivio : •

Accogliere

L’ALTRO SIAMO NOI
ripensare noi stessi, sperimentare il disorientamento

Parlare di accoglienza può risultare amaramente ironico. Nel migliore dei casi, chiunque parli di tolleranza e accoglienza è considerato un ingenuo, viene accusato dai cinici di perpetuare un’immagine falsa della realtà della nostra società e delle nostre politiche».
Carlos Thiebaut, docente di filosofia all’Università Carlos III di Madrid, diceva queste cose dieci anni fa, a Genova, nell’ambito di un incontro promosso da Resetdoc. Oggi le sue parole non hanno perso di attualità, anzi la cultura dell’intolleranza e dell’odio si sta affermando senza argini idonei a contenerla. Di fronte all’urgente domanda sul «come resistere», il filosofo rimanda alla scienza del pensiero che definisce «intempestiva», forse vuol dire lenta, riflessiva, incapace di ribattere colpo su colpo, atta piuttosto a spostare la prospettiva.
Ecco allora che Thiebaut propone l’atto del pensare, che «in tempi bui, richiede sobrietà e coraggio, ci obbliga a resistere alla nostra cattiva coscienza, […] ci spinge a pensare a noi stessi contro noi stessi». E aggiunge: «riflettere oggi sulla tolleranza e sull’accoglienza è forse il modo più radicale e più urgente di pensarci contro noi stessi».
Secondo il filosofo, questo pensare non significa prefigurare un altro
mondo, ma «ripensare a questo mondo e a questo presente». «Significa
pensare a un presente e a un “noi” intolleranti, o vicini a diventarlo,
a un presente e un “noi” poco inclini all’accoglienza». A partire da questa consapevolezza, che ci mette in gioco dalla parte “del torto”, è urgente «ripensare noi stessi», è necessario «essere coscienti e disposti a sentire e sperimentare il disorientamento e il disaccordo». Disorientamento e disaccordo, in cosa consistono? Nel sentirci e nel vivere «come se fossimo estranei e stranieri a noi stessi», dice il filosofo, secondo cui solo così possiamo imparare a essere tolleranti. «Anche se può sembrare paradossale, per essere accoglienti dobbiamo essere stranieri in casa nostra». […]