
Scegliere la pace con mezzi di pace
è un compito spirituale e politico: crescere in umanità e costruire comunità corali
ANTONELLA FUCECCHI, autrice dell’articolo da cui abbiamo estratto il testo che vi proponiamo, è docente di Lettere, redattrice per molti anni di Cem mondialità, esperta di didattica interculturale.
Autrice di varie pubblicazioni in prospettiva interculturale con particolare attenzione alla formazione, al metodo narrativo, comparativo e del decentramento.
Erigere un muro è relativamente semplice: occorre accumulare un quantitativo adeguato di materiali da sovrapporre in base alla misura, alla dimensione e al peso. La sovrapposizione alza una barriera che obbedisce a leggi fisiche garanti della sua tenuta. (…)
Le mura dividono lo spazio tra il dentro (civilizzato, evoluto e pienamente umano) e il fuori (selvaggio, incivile, subumano, minaccioso). Su questa linea di confine si struttura un modo di intendere l’identità come appartenenza rigida e come fedeltà all’origine (albero e radici), mentre viene meno l’identità intesa come dimensione mobile, evolutiva, volta ad arricchirsi attraverso scambi e reciproche influenze.
Al di qua del muro si iscrive lo spazio sicuro del focolare, dell’uguale, di ciò che identifichiamo come puro e autentico, che genera narrazioni identitarie etnocentriche, apologetiche, a volte agiografiche, producendo un immaginario spesso autoreferenziale.
Fuori è l’ignoto selvaggio, il non umano che contamina. Le mura di Gerico, di Samarcanda, di qualunque città sono imprendibili da lontano come il Castello di Kafka. La mole imponente alimenta in coloro che le sfidano l’idea di una ricchezza da espugnare con un attacco feroce e implacabile. Chi vive dentro è ossessionato dalla necessità di difendere il bene posseduto con la maggiore dedizione possibile; si consuma, in fondo, nell’attesa del nemico.
Ma nella poesia di Kavafis, l’attesa sfianca:
«S’è fatta notte, e i barbari non sono più / venuti…
e adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?
Era una soluzione, quella gente».
Costruire un ponte, al contrario, è un’operazione impegnativa. Richiede competenze ingegneristiche complesse, abilità specifiche considerate sacre: nella religione romana il collegio dei pontefici ha come compito civile quello di costruire ponti, di consentire il superamento di corsi d’acqua permettendo il collegamento tra due sponde.
Il ponte abbraccia due spazi lontani e resta sospeso: è un dispositivo pensato per facilitare il passaggio, agevolare lo scambio e l’incontro dove non si tocca terra, dove, con un atto di fiducia, si cammina verso l’altro lasciando da un lato e dall’altro la certezza della terraferma.
Il crollo del ponte di Mostar nella guerra jugoslava divenne il simbolo evidente della distruzione, dell’allontanamento irreversibile di sponde una volta unite, la rottura di una alleanza che non si vuole rinnovare più.
La metafora del ponte è la più usata anche per indicare riconciliazione, pacificazione, patto, fiducia. Chi costruisce ponti ha un orizzonte aperto e deve guardare oltre. È un’ala che si fa abbraccio.
L’immaginario del ponte alimenta la possibilità della mediazione anche in campo narrativo e storiografico, per consentire a popoli divisi in un contrasto percepito come implacabile di provare a confrontare le loro visioni.
Costruire narrazioni ponte sul piano storiografico è forse, a volte, l’unica possibilità che le due parti in lotta hanno di guardarsi, ammettendo l’una il diritto all’esistenza dell’altra.
Lo scontro israelo-palestinese è stato per anni (prima di degenerare nella rovinosa e distruttiva fase in corso, ndr) avvitato su stesso, trasformandosi in un meta-conflitto cioè in una lotta estenuante e sanguinosa a carattere endemico e cronico. Due storici, l’israeliano Ilan Pappe e il palestinese Jamil Hilal, nel lontano 2004, quando l’annoso conflitto sembrava poter essere a una svolta, furono curatori di un prezioso testo: Parlare con il nemico. Narrazioni palestinesi e israeliane a confronto.
La loro opera contiene una chiara esposizione delle precondizioni per le quali potrebbe essere possibile una narrazione ponte: «Una costruzione eretta da storici situati sull’uno e sull’altro versante dello spartiacque. Il processo è avviato da storici appartenenti al campo del più forte, determinati a riconoscere la narrazione della parte avversa e, allo stesso tempo, ad adottare un approccio più critico nei confronti della propria».
È possibile fissare dei prerequisiti necessari: un’atmosfera politica adeguata, che consenta una comune volontà di ascolto. Questo atteggiamento fu possibile alla fine degli anni Ottanta quando alcuni storici israeliani avviarono una riconsiderazione delle narrazioni ufficiali relative al 1948, valorizzando come attendibile la ricostruzione e la posizione degli studiosi palestinesi.
La seconda precondizione prevede che lo storico prenda in carico uno spettro di documentazione dei fatti il più ampio e inclusivo possibile. Questo atteggiamento presuppone una revisione del rapporto tra narrazione e potere, riconoscendo come la struttura del potere determini la relazione tra passato e presente.
La terza precondizione prevede la restituzione della parola a gruppi subalterni, determinando uno spostamento dell’asse narrativo a loro favore, certi che la ricostruzione proposta da questi gruppi, anche a livello accademico, ha dignità pari a quella dell’élite dominante. In questa prospettiva appaiono evidenti alcune conclusioni relative alla stima e al peso che ha il ricorso alle fonti orali. Se hanno valore storico le testimonianze orali dei sopravvissuti alla Shoah, allo stesso modo devono essere prese in considerazione le testimonianze orali relative alla Nakbah e ai fatti del 1948 riconsiderati dal punto di vista palestinese.
Queste prospettive, che hanno alimentato la speranza di una soluzione a partire dalla fine degli anni Ottanta, pur sconfitte dall’inasprimento delle posizioni e dal ricorso alla violenza cieca, sarebbero ancora le uniche possibili per pervenire a una risoluzione concreta, che impegni risorse non solo diplomatiche, politiche o militari, ma anche intellettuali; e che permetta un mutamento del paradigma.
Ascoltarsi, rinunciare all’autoreferenzialità, considerare il nemico come un interlocutore sembrava negli anni Ottanta e nei successivi (almeno fino al 2005) una strategia possibile per raggiungere una pacificazione. E vorremmo che le energie e le risorse dei popoli si spendessero per questo approccio perché, del resto, non vi è altra strada.