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Don Carlo Molari

Don Carlo, maestro di spiritualità

Molari parla della morte come del “criterio supremo della vita”

di Vito Mancuso

A metà degli anni Ottanta la casa editrice Marietti chiese a dieci teologi italiani una testimonianza sul loro essere teologi in vista di un volume che poi pubblicò con il titolo Essere teologi oggi. Dieci storie. Tra questi teologi vi era Carlo Molari che iniziò il suo intervento così: «Fare teologia non è un mestiere o un semplice servizio reso agli altri, ma è un modo concreto di vivere la fede ecclesiale, è uno stile di vita, e per me, oggi, è componente di identità personale, ragione di tutta la mia storia».
È bello per me oggi, di quella bellezza un po’ solenne che hanno sempre le celebrazioni, tenere un discorso in onore di Carlo Molari, ovvero della sua teologia e della sua vita, perché in lui le due dimensioni, come scrisse egli stesso 32 anni fa, sono venute a coincidere: per lui fare teologia è stata ed è la ragione di tutta la sua storia. Vorrei anzi dire che egli non si è limitato a fare teologia, ma è arrivato a essere teologia; non si è limitato cioè a essere un teologo nel senso di un professionista della dottrina dell’istituzione Chiesa cattolica; ma è arrivato a essere egli stesso teo-logia, cioè «parola o discorso su Dio», «parola o discorso di Dio», «legame linguistico con Dio». Questa identità di fare e di essere teologia è la medesima che si ritrova nelle grandi figure della storia teologica, tra cui menziono un solo nome che è impossibile non fare parlando di Molari, quello di Pierre Teilhard de Chardin.
Molari scelse di intitolare la testimonianza richiestagli dalla Marietti Conversioni di un teologo.

Va detto che il frutto più maturo delle sue conversioni riguarda non la teologia, ma la sua umanità; non il teologo, ma l’uomo. Occorre quindi parlare di lui come di un maestro di spiritualità.
Molari sostiene la presenza nel nostro tempo di una forte domanda di spiritualità: «Tutti dobbiamo diventare mistici. Oggi è un’esigenza, questa» (Per una spiritualità adulta, Cittadella, p. 136). Per lui la spiritualità nasce quando si sente di essere «ambiti di una Realtà più grande», e questo «vale per tutte le religioni» (Per una spiritualità, p. 136).
Specifica poi che «la spiritualità di cui oggi c’è bisogno è una spiritualità della relazione, vale a dire il passaggio dalla spiritualità dell’essere a quella della relazione» (Per una spiritualità, p. 136). Ma per quanto insista sulla spiritualità della relazione, Molari presenta quelle che a mio avviso sono le sue pagine spirituali più intense quando giunge a parlare della solitudine e del raccoglimento in se stesso dell’essere umano. In questo la sua proposta spirituale può essere intesa come un’interpretazione della più bella definizione di religione che io conosca, quella del matematico e filosofo Alfred Whitehead: «Religione è ciò che l’individuo fa della propria solitudine» (Religion in the Making).

Il cammino dell’uomo conduce necessariamente alla vecchiaia e alla morte e il compito della spiritualità è di prendere sul serio questo orizzonte facendo scaturire da esso una proposta di vita. Molari lo fa scrivendo quanto segue: “Invecchiare esige la capacità di fare progressivamente a meno di tutti i riferimenti di identificazione, per essere semplicemente se stessi… La morte ci chiederà di avere acquisito in modo così completo e definitivo il proprio nome, da saperlo abitare senza necessità di altri riferimenti” (Per una spiritualità, p. 85).
Mi sembra di risentire le parole con cui Ernesto Balducci nel 1985 concludeva L’Uomo planetario: «Chi ancora si professa ateo, o marxista, o laico e ha bisogno di un cristiano per completare la serie delle rappresentanze sul proscenio della cultura, non mi cerchi. Io non sono che un uomo».
Molari parla della morte come del «criterio supremo della vita». Secondo lui «noi siamo in questa fase di esistenza per diventare capaci di uscirne… siamo in una situazione che è destinata a finire». Quindi ecco il criterio decisivo: «Ciò che nella vita ci consente di finire bene è giusto, ciò che ci impedisce di morire bene è male» (Per una spiritualità, p. 110).

Desidero concludere leggendo una preghiera di Carlo Molari che a mio avviso riassume bene la sua teologia e la sua spiritualità.
«Io credo che il mio cammino è sostenuto e alimentato da un amore grande, da una forza che non posso accogliere completamente in poco tempo ma solo passo dopo passo, lungo tutto il tragitto verso il compimento, per cui mi affido, apro il mio cuore, senza riserve.
Io non so, ma Tu sai, io non posso, ma Tu puoi alimentare il mio sviluppo, posso diventare capace di attraversare ogni situazione e viverla in modo positivo.
Io debbo diventare vivo, non c’è nessuno che mi può sostituire in questo compito; divento attraverso ogni gesto che compio, ogni pensiero che sviluppo, ogni rapporto che intrattengo, per cui sono consapevole della grande responsabilità che ho di fronte a Te e di fronte al mondo». (Il difficile cammino della fede, p. 41).