
Scegliere la pace con mezzi di pace
è un compito spirituale e politico: crescere in umanità e costruire comunità corali
di Gustavo Zagrebeklsky
Il rispetto dei pensieri, delle credenze e dei modi di vivere è ciò che chiamiamo tolleranza, sostanza spirituale degli ordinamenti dove si ama la libertà. Comporta uguaglianza nella diversità e, dunque, libertà. (…) Parlare di uguaglianza e tolleranza sembra a prima vista una contraddizione. Ma non è così: il corso della vita è una continua potenziale chiamata a scelte del più diverso genere e nei più diversi ambiti, politico, religioso, culturale, professionale, familiare, eccetera. La tolleranza di tutti nei confronti di tutti garantisce l’uguaglianza, l’uguaglianza nella diversità. È l’opposto dello “stato etico”, lo stato che abbraccia una propria dottrina del bene per imporla alle vite individuali. Anche questa è uguaglianza, ma uguaglianza nella costrizione. I regimi che si autoproclamano illiberali possono anch’essi parlare di uguaglianza, ma sono intolleranti verso “i diversi”. I diversi, in tali regimi, sono i fuori-norma, gli anormali: non meritano di esistere perché minano la compattezza e la solidità della comunità, intesa come un tutto. Se sei minoranza, stai in guardia: prima o poi «verranno da te» (Bertolt Brecht). La nostra Costituzione proclama l’uguaglianza come uguale diritto di essere, pensare e agire, ciascuno secondo la propria personalità. L’articolo 3 parla di eguaglianza «senza distinzioni di…» (sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali). Perfetta formulazione: esistono tante situazioni ed esperienze diverse, preziose per i singoli ma indifferenti per gli altri. Bisogna, però, intendersi sull’indifferenza: essa riguarda i contenuti, ma non il fatto stesso che le differenze fioriscano. Occorre auspicarle e proteggerle quando sono in pericolo, perché sono frutti della libertà e, al contempo, alimentano la libertà. Se non esistessero, regnerebbe la medesima mefitica stagnazione delle società illiberali: per indolenza o per imposizione il risultato sarebbe lo stesso. Non c’è bisogno di elencare le tante e diverse forze che spingono verso il conformismo. Siamo pressati da insensati desideri di massa, insulse abitudini e stupide fantasie. L’esistenza già oggi è per gran parte programmata; con gli algoritmi e l’intelligenza artificiale lo sarà anche di più. Le deviazioni dall’ortodossia saranno sempre più difficili. Saranno un lusso riservato a oligarchie al di sopra della massa. Sarebbe piaciuta al Grande Inquisitore di Dostoevskij l’omologazione delle passioni, ottenuta carezzevolmente approfittando della pigrizia, del facile diletto e dell’ottundimento dello spirito. Pensiamo a cose come le mode, i beni superflui ma molto sognati, l’estetica dei corpi e le follie per renderli graziosi e sempre giovanili, l’atrofizzazione del pensiero, la banalità dei divertimenti e dei gusti artistici a incominciare da quelli musicali, lo scetticismo e il fatalismo che inducono al conformismo. In sintesi: declino della autenticità. Non esageriamo, viene da dire. Ma nemmeno minimizziamo. La società di massa è fiacca. La democrazia presuppone una società viva, non “di massa” ma “di tutti”. La società di massa realizza l’uguaglianza, ma l’uguaglianza alienata del “lasciarsi andare”; la società di tutti, invece, dovrebbe essere ugualitaria ma anticonformistica.
(…) Qui si innesta la domanda cruciale. L’uguaglianza nella diversità richiede tolleranza. Allora, tutto è tollerabile o c’è qualcosa d’intollerabile? Quanto più indifferentemente si tollera, tanto più si è amici della tolleranza? Tollerare gli intolleranti, i fanatici, i violenti? Su questa domanda si sono confrontati fior di filosofi e moralisti. Uscendo dalle discussioni astratte, si è riproposta di fronte alla crescita di partiti e movimenti neonazisti in Germania e neofascisti in altre parti d’Europa. La difficoltà consiste in questo: se opponi la tua intolleranza a quella altrui, allora cessi di essere tollerante a tua volta e scendi contraddittoriamente sul terreno del tuo avversario. Il tollerante, per restare coerente, dovrebbe, allora, offrirsi inerme all’intollerante? Al contrario: gli intolleranti è lecito, anzi doveroso, contrastarli precisamente perché si ama la tolleranza. L’ignavia, alla fine, sarebbe complicità.
Certo, ciò comporta, per così dire, una sospensione della tolleranza. Ma è una sospensione in vista di un ripristino, mentre i veri intolleranti mirano non alla sospensione, ma all’abolizione. C’è, dunque, una differenza radicale. Coloro i quali si oppongono agli intolleranti non scendono affatto sul loro stesso piano. Ci sono, poi, coloro che rifiutano il dilemma reazione o acquiescenza. Essi credono fino in fondo alle virtù persuasive della mitezza. All’intolleranza altrui reagisci con più tolleranza tua: il rimedio non sta nel meno, ma nel più, nella convinzione o nella speranza che il bonum (la tolleranza), come dicevano gli Antichi, sia diffusivum suum e alla fine prevarrà. Questa nobile posizione morale presuppone che possa almeno aprirsi un confronto basato, per l’appunto, sulla tolleranza. Sempre tentare, sapendo però che questa è la condizione che manca: il tollerante ha un bel proporre il dialogo, ma l’intollerante è tale proprio perché rifiuta il dialogo. Non tollerare l’intolleranza, dunque. Nello stato di diritto, però, la reazione all’intolleranza deve essere prevista e regolata dalla legge. La qualità e la misura della reazione dipendono dalla qualità e dalla natura del pericolo. Le parole, i rituali e le celebrazioni dell’odio, le organizzazioni della violenza, le spedizioni punitive richiedono misure diverse per fronteggiarle: sequestri, divieti, codice penale, scioglimenti, quando non bastano i discorsi. La legge deve essere la misura della forza legittima dello Stato. Deve autorizzare, ma anche trattenere. I casi, le forme, le misure devono commisurarsi alla violenza che si vuol combattere. Che cosa sia la proporzione non dipende dall’umore, liberale o forcaiolo, del legislatore: dipende da un giudizio di ragionevolezza, sulla quale si pronuncia, alla fine, la Corte costituzionale.