
La nonviolenza sana i conflitti
il riarmo accrescerà la spirale della violenza, ostacolerà la risoluzione integrale dei conflitti
MARTHA INÉS ROMERO, colombiana, è segretaria generale di Pax Christi International dal 1° gennaio 2023 e coordinatrice regionale per l’America Latina e i Caraibi. Ha studiato trasformazione dei conflitti presso il Kroc Institute for Peace (USA) ed è stata membro del Catholic Peacebuilding Network. Ha contribuito alla trasformazione dell’insegnamento cattolico attraverso la promozione di una cultura di pace, nonviolenza e riconciliazione, con Catholic Relief Services e con Pax Christi International, attraverso la partecipazione ai processi sinodali e alla Piattaforma d’azione Laudato Si’. L’intervista che pubblichiamo è tratta da L’Osservatore romano del 4 aprile.
La nonviolenza «è una scelta di vita che invita a riscoprire i valori spirituali, culturali e sociali, ma anche a recuperare una cittadinanza attiva capace di esercitare un’influenza sociopolitica nella sfera pubblica». È questo l’obiettivo di Pax Christi International, movimento cattolico per la pace, come spiega in un’intervista la sua segretaria generale, la colombiana Martha Inés Romero. In carica dal 1° gennaio 2023, Romero è anche, da oltre quindici anni, la coordinatrice di Pax Christi per l’America Latina e i Caraibi.
Qual è la missione di Pax Christi?
Pax Christi International, come movimento cattolico per la pace, promuove una spiritualità fondata sulla convinzione assoluta della dignità e del valore di ogni essere umano e della dignità del Creato. La riconciliazione è al centro della nostra missione: promuoviamo una cultura di pace al fine di trasformare un mondo segnato da molteplici violenze, ingiustizie e disuguaglianze, e da una grande insicurezza globale, in scenari di vita, di armonia, di pace giusta.
In un momento storico in cui si parla di riarmo come se fosse l’unica soluzione, come proporre la nonviolenza quale alternativa valida e possibile?
Il mondo sta vivendo una “crisi di civiltà” legata non solo al riarmo ma anche all’individualismo, al consumismo, all’intolleranza di fronte alla migrazione; si tratta di una perdita di valori etici e culturali. Pax Christi International ritiene che il riarmo non farà che accrescere la spirale della violenza e che con la violenza non si possono affrontare i conflitti in modo sostenibile o integrale; al contrario, ritiene che abbiamo la certezza di poter e la responsabilità di dover prevenire conflitti violenti con mezzi nonviolenti. Concordiamo con Papa Francesco quando dice che «la guerra è sempre una sconfitta per l’umanità».
La storia recente della realtà latinoamericana è stata segnata da violenza e conflitti armati. C’è qualche contesto o progetto concreto dove avete lavorato a favore della nonviolenza con risultati visibili e positivi?
Nel sud-ovest del Messico, in Chiapas, da dieci anni accompagniamo le nostre organizzazioni partner, il Centro Fray Bartolomé de las Casas (Frayba) e il Servizio internazionale per la pace (Sipaz), nel lavoro delle comunità indigene e contadine vittime dell’industria estrattiva (attività mineraria, agroindustria e fracking, estrazione di idrocarburi). Le conseguenze dell’estrattivismo sono l’inquinamento ambientale, i danni alla salute, la violenza contro le comunità. Come Pax Christi International abbiamo elaborato una proposta metodologica per sette paesi della regione che ha permesso alle comunità coinvolte di trasformare in modo nonviolento i conflitti nelle loro relazioni quotidiane. (…) Un caso concreto è stata la lotta del movimento indigeno in difesa della vita e della Terra Zodevite, formato da quaranta comunità in dieci municipi del Chiapas, che grazie a processi di resistenza nonviolenta è riuscito a fermare la licitazione di 84.500 ettari destinati all’estrazione di idrocarburi e di minerali, costringendo il Governo ad avviare una serie di consultazioni comunitarie. Come ha detto la poetessa Zoque Miqueas López: «Siamo un popolo pacifico e generoso che non aveva mai partecipato prima a un movimento di protesta sociale, ma abbiamo dovuto farlo dinanzi alla minaccia latente dell’estrazione di idrocarburi e di minerali nel nostro territorio che, per noi, è un attentato alla vita perché danneggia l’acqua, i fiumi, le montagne, la flora e la fauna; è un’aggressione a Nasakobajk, la Madre Terra, colei che ci protegge e ci alimenta, colei che ci offre la pioggia e il sole».
Il Papa ha recentemente parlato di disarmare le parole, le menti e la Terra. Da dove si può iniziare?
Generando spazi, fisici e virtuali, per il dialogo e il dibattito aperti sulla realtà che c’interpella, a livello locale e globale; promuovendo spazi dove nessuno sia costretto ad agire contro la propria coscienza e dove invece possa apportare i suoi doni per il bene della collettività; riconoscendo che esistono altre credenze e culture che meritano di essere conosciute e valorizzate e, in tal senso, promuovendo orizzonti di interculturalità per la difesa della vita, delle culture ancestrali, dell’alterità; custodendo quelle espressioni che, a partire da una eco-spiritualità, resistano in modo non violento a un modello che valuta i territori solo in base ai minerali critici che vi si possono estrarre, senza tener conto del presente e del futuro di quanti li abitano; decolonizzando le nostre menti e i nostri cuori, a partire dalla nostra fede che ci presenta un Dio buono, un Dio vero che vede l’oppressione del suo popolo e gli ridona dignità. Quando parliamo di nonviolenza attiva, intendiamo promuovere l’azione empatica, collettiva e trasformatrice di questa realtà complessa.
Come riuscire a passare dalla teoria e dagli studi sulla pace e sulla nonviolenza all’azione concreta nei conflitti armati?
La nonviolenza attiva promuove una conversione culturale che comporta la revisione di quelle azioni che danneggiano l’essere umano e il pianeta: una volta diventati consapevoli di questo, inizia di un processo di riparazione — a livello personale, relazionale, culturale e strutturale — del danno fatto. Ciò implica il riconoscimento della dignità della controparte, che non è un nemico. A livello individuale, sentire-pensare, immaginare, sperimentare, rischiare, vivere la spiritualità con una forza trasformatrice; a livello collettivo, fare pressione, a partire dalla società civile e dai movimenti sociali organizzati, per ottenere cambiamenti duraturi, influenzando quanti prendono le decisioni; esercitare la cittadinanza attiva significa discernere e scegliere tra corruzione e onestà a favore del bene comune, alimentando in ciò che facciamo la speranza in un mondo migliore. I popoli indigeni andini hanno tradotto questa saggezza ancestrale nel concetto del Buen vivir (Zumak kawsay) che corrisponde per noi alla cura della casa comune, la Pacha Mama, e di quanti vi abitano. Per questo, abbiano bisogno di dis-armarci e ricostruirci come civiltà.