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VI domenica di Pasqua 2003 (Gv 15,9-17) – Anno B

E’ un tema molto facile, quello di oggi, ma proprio per questo molto ambiguo, perché ci inganniamo continuamente, noi, a proposito dell’amore: ci inganniamo nel senso che inganniamo noi stessi, ma inganniamo anche gli altri. Il termine ‘amore’ di per sé indica un numero enorme di atteggiamenti, di stati d’animo, di sentimenti… Ma di atteggiamenti vitali, soprattutto: l’atteggiamento che ha il bambino piccolo nei confronti della madre e del padre, che noi chiamiamo amore, è una cosa molto diversa da quella che ha per esempio l’adolescente nei confronti dei suoi amici o dei genitori o i giovani o gli innamorati o gli sposi o le persone adulte o la persona matura che è giunta alle forme di gratuità radicale della morte. Sono atteggiamenti tutti diversi, che hanno proprio anche dinamiche, movimenti interiori diversi, eppure noi li qualifichiamo tutti con lo stesso termine ‘amore’
A questo si aggiunge poi il tipo invece di amore che Gesù ha vissuto e insegnato – Gesù, ma tanti altri santi, certo – che è ancora diverso, anche dall’amore della gratuità radicale della morte, perché ha una sua caratteristica specifica. Noi in termine tecnico lo chiamiamo ‘amore teologale’, ma sapete che tutti i termini poi vengono intesi secondo le proprie esperienze, per cui i significati restano ancora sospesi, ambigui.
Allora dovremmo cercare almeno di capire qual è la differenza fondamentale tra l’amore di cui parliamo continuamente e che viviamo continuamente nei rapporti e questo tipo di relazione che Gesù ha insegnato: “Questo io vi comando, amatevi gli uni gli altri”. Lo chiama ‘comandamento nuovo’, in Giovanni. Poi nella I lettera (2,7) Giovanni dirà che è anche un comandamento antico, “che avete ricevuto fin da principio”, riferendosi o all’inizio del cammino di fede di coloro che entravano nella sua comunità o, in rapporto a Gesù, all’inizio della sua attività pubblica: lì appare un nuovo tipo di amore.
Tanto è vero che i cristiani per questo hanno utilizzato un termine un po’ elitario, che non era utilizzato frequentemente nella lingua greca, ‘agape’. Si trova già nella traduzione dei Settanta, cioè nella traduzione greca della Bibbia ebraica fatta da settanta ebrei di cultura greca, verso il II secolo prima di Gesù, per gli ebrei che erano nella diaspora e non avevano la possibilità o la capacità di leggere bene e di capire bene l’ebraico. Ecco, nella traduzione c’era già il verbo agapào e il sostantivo agàpe. Forse dovremmo utilizzarlo, conservando lo stesso termine greco, agape, proprio per indicare questa qualità diversa.
Ma, aldilà dei termini, adesso dobbiamo cercare di capire in che cosa consiste questa diversità. Perché non è facile: non è facile esprimerlo e non è facile viverlo. E d’altra parte si capisce solo quando lo si vive, come tutte le realtà della nostra esistenza. Ma cerchiamo almeno di individuare alcuni elementi caratteristici.

Il primo ce l’offre Gesù nel primo versetto che abbiamo ascoltato nel Vangelo: “Come il Padre ha amato me”, dove quell’avverbio ‘come’ (in greco katòs) non indica solo la misura, vuole proprio indicare la ragione. Potremmo tradurre così: “Per il fatto che il Padre mi ha amato”, “Dato che il Padre mi ha amato” o anche “Siccome il Padre mi ha amato”. Il riferimento primo quindi è all’azione di Dio in noi. Questo è il primo dato fondamentale per vivere quel tipo di amore che Gesù ha insegnato: deve esserci questa consapevolezza dell’azione di Dio in noi.
E il versetto continua: “e io rimango nel suo amore…”: è il secondo elemento: l’accoglienza dell’azione di Dio in noi, l’interiorizzazione di questa azione.
Comincia così quel tipo di amore che Gesù ha insegnato. Quindi capite subito la differenza: non siamo noi a volere il bene. Quando vogliamo il bene è una cosa stupenda: il bambino, l’adolescente, il giovane, l’adulto, quando vuole bene ad un’altra persona ha raggiunto una qualità umana notevole e importante, ma non è questo l’amore di cui parla Gesù. Perché quel tipo di amore (“Io ti voglio bene”), nasce da noi, noi siamo il principio; quindi in mezzo c’è il nostro bisogno, la nostra volontà, il nostro desiderio – tutte cose buone, non voglio con questo indicare elementi negativi, ma è la ‘nostra’ volontà, è il ‘nostro’ bisogno, è il ‘nostro’ interesse, è il ‘nostro’ desiderio, la ‘nostra’ volontà di bene, la ‘nostra’ generosità che si esprime nel bene che vogliamo. Possiamo arrivare alla gratuità delle nostre offerte, ma siamo noi che offriamo.
Quindi quel tipo di amore che noi viviamo abitualmente è centrato in noi stessi. Ricordate la figura del fariseo che Gesù delinea nella parabola del capitolo 18 di Luca: “Due uomini salirono al tempio a pregare… ‘Io ti ringrazio, Padre, perché non sono come gli altri uomini, io voglio bene a mia moglie, io pago le decime, io osservo la legge…’”. Elencava tutte le cose che lui faceva, cose buone, ma nella prospettiva di Gesù questo non era sufficiente, tant’è vero che conclude la parabola dicendo: “Tornò a casa non giustificato”, cioè non in quel rapporto con Dio che costituisce figli suoi.
Questo è infatti il dato consequenziale: quel tipo di amore di cui parla Gesù costituisce figli di Dio. Avete sentito nella seconda lettura, la prima lettera di Giovanni, dove si diceva: “Chi ama è generato da Dio e conosce Dio”. Può sembrare una cosa strana. Giovanni lo dice proprio in senso forte: “è generato da Dio”, cioè in lui cresce qualcosa di diverso, di nuovo, che risulta dall’azione di Dio in lui accolta. E’ il figlio di Dio che cresce in lui, la dimensione spirituale. Possiamo chiamarla in tanti modi, ma è una qualità nuova della persona. Dice “è generato da Dio”, perché è quella qualità che resta poi per sempre, a cui corrisponde il nome scritto nei cieli, come Gesù diceva. E’ quello che è definitivo per noi, è la sostanza della nostra realtà storica, personale, è il figlio di Dio che cresce in noi. Quindi chi esercita questo tipo di amore è generato da Dio. E conosce Dio: quel tipo di conoscenza che deriva precisamente dall’esperienza della sua azione riconosciuta e accolta.
Vedete, questo è il punto centrale della differenza tra il tipo di amore che noi abitualmente esercitiamo, pure nelle sue forme più nobili ed elevate, e l’agape di cui parla Gesù. Il punto di partenza è l’azione di Dio riconosciuta e accolta. Perché se manca la consapevolezza e manca l’accoglienza, la sintonia, l’azione di Dio in noi si esprime solo a livello fisico, a livello biologico, a livello psichico inferiore, ma non giunge ad essere consapevole azione accolta, che fiorisce nell’amore e nella conoscenza.
Quindi vedete, non è qualcosa che avviene automaticamente, solo perché siamo stati battezzati o perché andiamo alla Messa o perché osserviamo le leggi della Chiesa; non per questo automaticamente il nostro tipo di amore è un amore teologale. No, richiede un atto di consapevolezza e di sintonia con l’azione di Dio in noi, cioè il diventare consapevoli che c’è una forza più grande che si esprime in noi e che fiorisce in gesti di misericordia, in gesti di perdono, in gesti di gratuità. Proprio il vivere consapevolmente questo.
Concretamente cosa bisogna fare perché giungiamo a sperimentare questo tipo di amore? Occorre cominciare a compiere qualche piccolo gesto, ma nella consapevolezza dell’azione di Dio in noi. Quindi è porsi di fronte a Dio, accogliere la sua azione, riconoscere che essa contiene ricchezze molto maggiori di quelle che noi esprimiamo nel nostro amore – nelle nostre idee anche, perché per Gesù il cuore non era semplicemente il centro dell’amore, come è oggi per noi, ma era simbolo della realtà umana profonda, indicava il centro della persona umana. E’ dire nella preghiera: “So che Tu hai una ricchezza più grande di quella che io riesco ad esprimere. Per questo mi affido a Te, mi apro alla tua azione, consento che la tua azione diventi piccolo gesto. Non riesco a perdonare, non riesco a esprimere misericordia, nel mio gesto d’amore per quella persona sono egoista, penso solo a me stesso, al mio interesse, perché sempre ho vissuto così, da piccolo non potevo fare altrimenti, poi non me ne sono accorto e ho continuato allo stesso modo; ma ora prendo coscienza di questo fatto, vedo gli elementi di egoismo che si inseriscono e mi affido alla tua azione, voglio che si esprima in me in modo nuovo”.
Ecco, questo farlo esplicitamente, consapevolmente. Allora pian piano diventa un orizzonte, diventa uno sfondo continuo di tutta la nostra esistenza, non abbiamo neppure più bisogno di pensarci. Allora è chiaro che ancora rimaniamo egoisti, ancora cerchiamo il nostro interesse, ma quando spunta l’egoismo o si esprime l’interesse comincia un disagio, avvertiamo un’incongruenza e allora cominciamo a prendere coscienza dei nostri limiti e delle esigenze dell’azione di Dio o di quello che Gesù chiama ‘il suo comandamento’.
E’ un cammino lungo ma di per sé veloce, poi, perché una volta iniziato le tappe si susseguono velocemente, giungiamo facilmente a far sì che l’azione di Dio si esprima in noi in forme nuove di dedizione, di misericordia. La misericordia infatti è un’espressione sublime di questo atteggiamento. Noi facilmente quando incontriamo gli altri, anche per la strada o nell’autobus, facilmente abbiamo un atteggiamento di riserva interiore, di giudizio, a volte di disprezzo, se ci sono elementi esteriori che ci orientano in questo senso; raramente esercitiamo misericordia, siamo benedicenti, formuliamo auguri interiori. Raramente siamo positivi nei confronti degli altri, proprio per questo stile egoistico che ha caratterizzato la prima fase della nostra esistenza e che spesso si prolunga oltre il dovuto. Allora educarci ogni giorno a esprimere la positività dell’azione di Dio, ogni volta che incontriamo persone, e farlo consapevolmente, ci educa a stabilire questo orizzonte continuo, ‘agapico’ possiamo chiamarlo, questo orizzonte dell’amore teologale.

Allora poi ne derivano due cose fondamentali: quella che Gesù chiama la conoscenza di Dio e quella che Gesù chiama la sua gioia.
La conoscenza di Dio non è una conoscenza intellettuale, non è il sapere che cosa è Dio, ma è l’avvertire costantemente la sua presenza, la sua azione in noi, la grandezza dell’amore che ci avvolge. Giovanni ce lo ricordava nella prima lettera: “Non siamo stati noi ad amare Dio, Lui ha amato noi” (4,10). Noi non avevamo nessuna ragione per essere amati, eravamo nulla! E’ stato il suo amore che ci ha fatto emergere dal nulla come realtà, come consistenza.
E continua: “E ha inviato il figlio suo come vittima di espiazione per i nostri peccati”. E’ uno dei tre luoghi dove c’è il termine ‘espiazione’; un altro è nella stessa lettera di Giovanni, un altro è in Rom.3,25. E’ un termine ambiguo, perché oggi lo utilizziamo in un senso molto scaduto, di ‘pagare il fio’, mentre è l’azione misericordiosa di Dio che salva il peccatore. Gesù ha vissuto questo amore e ha subito le conseguenze del peccato degli uomini, perché l’hanno ucciso, per questo tipo di amore che viveva. In questo senso è diventato vittima del peccato. Non vittima di Dio, vittima del peccato degli uomini. Perché una persona che ama in un mondo che vive di egoismo viene necessariamente distrutta. Una persona giusta in un mondo ingiusto viene sconfitta, viene uccisa. Mettete che ci sia una società mafiosa: un uomo che viva secondo la legge e la giustizia è sconfitto, viene eliminato, viene ucciso. Questo vuol dire essere vittima dei peccati.
Solo che – e qui è il punto – la forza della vita, la forza che si esprime nell’amore, è così potente, che attraverso la morte rivoluziona la situazione, sconvolge la realtà. E se ci sono persone che sono in grado di accogliere questo messaggio, poi diventa una forza travolgente, come è successo per Gesù.
Ma questo deve avvenire anche oggi: perché anche oggi il mondo ne ha bisogno. Perché più la storia avanza, più lo stile di amore è esigente. Potremmo anche dire: la quantità di amore (se si può misurare) necessario per fare avanzare la specie umana diventa sempre maggiore; cioè la qualità, il tono, la profondità delle dinamiche di amore necessarie perché la forza della vita proceda, perché la storia avanzi diventa sempre più grande. Quindi dev’essere sempre più ampia la comunità che esprime la forza creatrice di vita. Se invece ci fermiamo o peggio ancora se andiamo indietro, facciamo prevalere le dinamiche di egoismo, di aggressività, di violenza. Per questo ogni volta che c’è violenza nuova nel mondo c’è da dubitare che la storia avanzi: perché sono ferite all’amore e sono dinamiche che sollecitano nuove forme di oppressione, di violenza, di aggressività.
Sembrerebbe che non possiamo far nulla, ma c’è un dato per il credente che è fondamentale: che la forza dell’amore è più grande di tutte le altre dinamiche, perché tutte le altre dinamiche sviluppano, in modo incongruo e deficiente, ma sempre sviluppano la forza dell’amore. Anche chi odia utilizza la forza dell’amore. Per un oggetto sbagliato, per un’idolatria o per il proprio interesse, ma è sempre la stessa forza. Non ci sono due forze nel mondo, non c’è la forza positiva e la forza negativa. Se crediamo in Dio c’è un’unica forza positiva, che è la forza della vita, che è la forza dell’amore. C’è un’unica forza, solo che noi la utilizziamo in modo carente, deficiente, in modo inadeguato, perché non abbiamo ancora la possibilità di esprimerla. E quando prevalgono questa inadeguatezza e questa insufficienza è chiaro che la forza della vita diventa distruttrice e diventa ragione di morte.
Di qui l’importanza allora di vivere in sintonia, proprio secondo le sue dinamiche reali. E questa è la funzione di chi ha imparato l’amore agapico: è di diffondere nel mondo questa potenza creatrice che sconfigge il male e conduce alla forma definitiva di vita, che è quella che noi chiamiamo la vita eterna, cioè quella ricchezza di umanità che si esprime nel compimento del processo storico.

Chiediamo allora al Signore la chiarezza dentro di noi. Prima di tutto nei nostri confronti, per capire che qualità di amore stiamo vivendo. Secondo: chiediamo la consapevolezza della missione, che anche minimi gesti di amore possono svolgere nel mondo, quando c’è una rete di persone che li potenzia rendendoli grandi fenomeni storici. Non perché siamo forti noi, ma perché convogliano la potenza creatrice di Dio.
Comprendiamo allora questa responsabilità che abbiamo come testimoni dell’amore di Dio nel mondo: l’amore che salva, l’amore che crea, l’amore che conduce alla pienezza di vita dei figli di Dio.