
di Gianni Santamaria in avvenire.it del 25.04.25
Il latinista, già rettore dell’Università di Bologna: «Si è scagliato contro l’uso divisivo della parola. La sua lingua era forte perché incarnata. Impossibile tornare a un linguaggio usurato»
«Autorità, politici, Capi di Stato, da rettore ne ho conosciuti parecchi: parlavano con me, ma si vedeva che con la testa erano altrove. Lui no, quando gli ho parlato avevo proprio l’impressione che fosse lì per me, mi ascoltasse». Così il filologo classico Ivano Dionigi – già rettore dell’Università di Bologna e dal 2012 al 2022 presidente della Pontificia Accademia di latinità – ricorda papa Francesco. Da consultore del Pontificio Consiglio della Cultura prima e poi del nuovo Dicastero per la Cultura e l’Educazione, Dionigi ha avuto modo di incontrare papa Francesco nelle plenarie di quelle istituzioni vaticane. La prima volta con il cardinale Ravasi nel 2017, quando parlò con il Papa della sua visita di quell’anno a Bologna; l’ultima nel novembre scorso con il cardinale Tolentino de Mendonça a casa Santa Marta. In quest’occasione Dionigi ha sentito nel discorso di papa Bergoglio il “volo ut sis” (voglio che tu sia) di sant’Agostino che quasi suonava come una risposta alla domanda – sempre del santo di Ippona – “tu quis es?” (tu chi sei?), sulla quale pochi mesi prima lo studioso aveva incentrato un ciclo di incontri per i giovani con lo stesso Ravasi e lo psichiatra Lingiardi. Una coincidenza, ma significativa di una comunicazione a distanza.
Cos’era comunicare per il Papa?
«Mettere in comune i doni: cum-munus. Le espressioni “cultura dello scarto”, “guerra mondiale a pezzi” o “ospedale da campo” non hanno semplicemente la funzione di evocare una realtà o di veicolare un contenuto, ma hanno una funzione generativa. Sono parole che traducono un pensiero biblico e generano un pensiero comunitario. È il logos – che se scritto con la maiuscola è la Parola di Dio – generatore del mondo».
Il contrario di quanto vediamo nella comunicazione odierna?
«La comunicazione è il problema di oggi. Con Internet siamo tutti emittenti. E comunicare è diventato un agitare la parola come un maglio sulla testa dell’avversario, cercare il sensazionalismo, dare notizie eclatanti e a volte non vere. Le parole oscillano a destra e sinistra della propria ombra come un diapason, ma così si riducono a phonè, a suono, a grido, e non comunicano più nulla. In tutto questo il Papa è stato, etimologicamente, anche un grande contestatore».
In che senso?
«Il contestatore non è il bastian contrario, l’oppositore aprioristico o gratuito. È il cum-testis, il testimone. Francesco è uno che ha testimoniato con gli altri e per gli altri. Su questo cum lui ci è morto, ha voluto uscire per stare con la folla. È stato un grande comunicatore e un innovatore per la sua immediatezza e la ricerca del contatto. Era, infatti, un uomo istintivo, di grande intuito. Le espressioni che ho ricordato prima, lo “scarto” e così via, se si guarda a fondo, sono tutte incarnate, non sono parole frutto della teoresi. Ci vorrebbe un massmediologo di prima categoria come Umberto Eco per studiare i suoi discorsi, anche quelli fatti all’impronta».
Più volte Francesco ha insistito sull’uso distorto della parola, sul chiacchiericcio.
«La parola, lo dico con Gorgia, è pharmakon, medicina e veleno, inoltre la parola è allo stesso tempo simbolica, unisce, e diabolica, divide. Francesco ha cercato delle grandi parole simboliche, che sono rimaste delle icone nell’immaginario, e si è scagliato con veemenza contro la parola divisiva. È stato l’uomo del cum- non del dis- che sta davanti a parole che indicano negatività, separazione».
Lei è stato nominato da Ratzinger e poi confermato da Bergoglio. Quale la peculiarità di ciascuno di due?
«Ratzinger, utilizzando il linguaggio paolino, dalla veritas faceva discendere la caritas. Francesco dalla caritas andava alla veritas, secondo un processo ascensionale».
E chi verrà dopo?
«Adesso sento dire che “ci vorrebbe un profilo sinodale” o altro. Sono discorsi inutili. Francesco è stato, per dirla con Hegel, un “individuo cosmico storico”, uno che sta nei tornanti della storia e li piega. È inutile scimmiottarlo. Chi gli succederà avrà tra i principali oneri proprio quello del linguaggio. Non potrà ripetere quello di Francesco, ma non potrà neanche tornare a parole usurate. Il retore romano Frontone direbbe ai “verba obvia”, che si trovano – inerti – sulla strada. Invece vanno adoperati i “verba optima”, le parole migliori, che hanno significato. Francesco ha usato parole animate e non cadaveriche. In questo mondo connesso e globalizzato ha conquistato tutti con un “buonasera” e con l’immagine del Papa preso “alla fine del mondo”. Ha cambiato lo scenario per noi, abituati a realtà di cortile, italocentriche ed eurocentriche».
Un cambiamento che muta le prospettive di un Occidente al tramonto?
«Questo Occidente non crede più e ha perso anche le sensibilità per il sacro. La domanda un po’ sfrontata che faccio è: la Chiesa oggi porterà avanti la novitas radicale, evangelica a prescindere dagli interlocutori dei vari imperi – di destra o sinistra, a Est o a Ovest – oppure cederà alla tentazione di diventare instrumentum regni? Lo vediamo con Putin che va a braccetto con gli ortodossi e con l’esibizione strumentale che Trump fa della Bibbia. L’impero cerca sempre la consacrazione: Roma, Bisanzio, Carlo Magno. Il Vangelo è altra cosa».
Francesco ha definito il latino un “tesoro di sapere e di pensiero” che ha forgiato l’Occidente e la sua identità ed è uno strumento di “riflessione e dialogo”.
«In un libro sono riuniti tutti i suoi tweet in latino. Questa lingua dà il primato della parola: è la mater certissima delle lingue come la nostra e quella del Papa latino-americano. Dà la dimensione del tempo, che oggi è messo all’angolo dallo spazio, dalla rete. Infine, dà la nobiltà del lessico politico. Si pensi a una parola come res publica, che è stata tradotta come repubblica, Stato. Macché, è la “cosa di tutti”, contrapposta alla res privata. Il latino è molto di più di una cassetta degli attrezzi per l’uomo occidentale, perché gli dà un’identità e gli strumenti per confrontarsi con i saperi “altri” e capire i loro mondi. I conflitti non sono mai di cultura, bensì di ignoranza».