Vai all'archivio : •

Padre Ermes: «Ripensiamo la Chiesa partendo dalle persone e non dalla teologia»

L’intervista della domenica a padre Ermes Ronchi, Servo di Maria, da qualche anno al santuario di Santa Maria del Cengio a Isola Vicentina

di Luca Ancetti su Il giornale di Vicenza del 13.11.2022

“All’ombra dell’ultimo sole/s’era assopito un pescatore/e aveva un solco lungo il viso/come una specie di sorriso./Venne alla spiaggia un assassino/due occhi grandi da bambino/due occhi enormi di paura/eran gli specchi di un’avventura”.

Padre Ermes Ronchi perché vuol cominciare sulle note de Il Pescatore, di Fabrizio De Andrè?
La canzone racconta una messa laica, sulla spiaggia, al tramonto, dove De Andrè riprende le stesse parole di Gesù all’ultima cena: spezzò il pane versò il vino, per un uomo dagli occhi grandi di paura. È l’uomo con la U maiuscola, senza aggettivi, può essere ricco o povero, santo o assassino. È l’uomo, ogni uomo che ha paura, è Giuda, sono io. E quel vecchio pescatore ha un solco lungo il viso: immagino che sia il sorriso di Dio caduto sulla terra.

Servo di Maria, scrittore, conferenziere, editorialista, friulano di nascita, vicentino d’adozione. Da qualche anno svolge il suo ministero nel santuario di S. Maria del Cengio a Isola, comunità che risale al 1400 e che oggi ospita 4 frati. Convinto che la “ripetitività uccide”, lei lasciò Milano: come trascorre le giornate qui?
Il tempo è scandito dal ritmo monastico della preghiera, della mensa, del lavoro, degli incontri, personali o di gruppo, come ad esempio con i gruppi: Talita kum, genitori che hanno perso un figlio giovane; la Casa dei sentieri e dell’ecologia integrale, un presidio della Laudato si’ sul territorio, corsi biblici, trekking eco-biblici. In realtà sono un nomade del vangelo. Viaggio molto per quella che sento come la mia missione e la mia passione: l’annuncio della Parola di Dio. Lo faccio attraverso libri, articoli, video, post su facebook. Sono fortunato: amo quello che faccio.

Laureato in Antropologia culturale, lei ha un percorso di studi complesso, ha vissuto anche a Parigi e in Canada, dove per mantenersi ha alternato l’insegnamento a lavori umili come lo spazzino. Come è andata?
Non volevo pesare su nessuno e in più mi piacevano entrambi i lavori. Con una differenza: mentre nel lavoro di spazzino ero l’ultimo arrivato, l’immigrato svantaggiato in fondo alla fila, quello che deve tacere, nell’insegnamento ero in posizione di vantaggio, quello che ha autorità. Un doppio ruolo che mi ha permesso di stare con tutti e due i piedi dentro la vita, capire cosa voleva da me e cosa io volevo da lei…e poi occasioni da togliere il fiato, quando ci si sedeva al fiume a godersi lo spettacolo dei salmoni che risalivano la corrente.

Se non avesse scelto di indossare il saio, chi sarebbe oggi Ermes Ronchi?
Non so vedermi altrimenti che frate in comunità, non mi viene in mente niente…Perchè la mia vita è stata bellissima. Incontrare Cristo è stato l’affare migliore della mia vita.

Lei racconta di avere avuto due grandi guide nel suo percorso: il primo è padre Giovanni Vannucci.
Padre Vannucci era un frate dei Servi di Maria, mistico, contadino, docente alla facoltà, cuoco bravissimo. Il suo eremo nel Chianti profumava di silenzio, è stato negli ’70 e ’80 un approdo dei cercatori di Dio di tutta Europa. Era decenni avanti a tutti. Illuminava di colpo l’essenziale delle cose. Dava ali anziché piantare paletti. Un suo consiglio a noi studenti: non pensate pensieri già pensati da altri. Apriva spazi al volo.

Per lei, ho letto, padre Vannucci aveva la unicità di portare le persone sull’orlo dell’infinito: cosa significa?
Turoldo diceva che Vannucci era una spugna imbevuta di infinito. Faceva sentire che sulla tua pelle viene a battere l’onda dell’oceano, che il confine dell’uomo è Dio. Ci conduceva come nel periplo di un’isola a scoprire che sabbia e onda si mescolano, che finito e infinito hanno lo stesso confine.

In quegli anni lei fece esperienza di un convento aperto, dove di fatto faceva il bracciante tra preghiera e meditazione. Com’era vista dalla Chiesa questa esperienza?
Come una contestazione o una follia, come uno spreco di intelligenze e di entusiasmi. Mentre per noi voleva essere un ritorno alle sorgenti, o un monachesimo originario, sobrio, senza risorse né privilegi, “ora et labora”, vivendo in una vecchia cascina abbandonata. Eravamo presi per anticlericali, ma volevamo solo fare voto di “vastità”. Talvolta penso a quanto la chiesa sarebbe diversa se invece del voto di obbedienza ci avesse fatto fare il voto di libertà. Il Vangelo non è una morale, ma una sconvolgente liberazione.

Negli anni del post Concilio, posso dire che lei è stato un prete ribelle? In molti decisero di lasciare la Chiesa, perché lei no? E come sono stati il suo ’68 e la sua rivoluzione?
Noi cinque si voleva creare un gruppo evangelico, niente di più. Un gruppo che parlasse una lingua non morta e non banale, che facesse scorrere la Parola nella vita. L’Ordine dei Servi è stato un fiume dall’alveo largo, generoso, che raccoglieva molte correnti: il frate missionario, il poeta, il pittore, il vignaiolo, lo studioso, l’eremita, il predicatore, una casa con molte dimore. Sentivo che c’era anche la mia. Bastava tenere duro. L’Ordine dei Servi mi ha salvato dalla tentazione di lasciare.

L’altra figura fondamentale nella sua formazione teologica è stato padre David Maria Turoldo: lei lo descrive come “libero dal superfluo e fedele all’essenziale”.
Si stava bene vicino a lui perché era un uomo libero, nonostante tutto. Di un idealismo selvaggio e vincitore. Mai sconfitto, come chi crede davvero nelle battaglie che intraprende. Ma soprattutto ci trasmetteva un prepotente sentimento del divino, ci ha contagiato con la malattia biblica dell’Assoluto. Lo ascoltavi e Dio era più vivo, era più vero. Padre Turoldo ci ha insegnato ad amare con la stessa intensità il cielo e la terra. E quindi a scegliere sempre l’umano contro il disumano, a farne il criterio etico fondamentale. Ascoltarlo era rimanere accesi, per la passione e la poesia fuse assieme.

Tra le sue esperienze più recenti c’è quella televisiva. Per cinque anni è stato il volto su Rai 1 della trasmissione “A sua Immagine” in cui curava il commento domenicale del Vangelo. Si è fatto travolgere dal vorticoso mondo della televisione?
Seduttivo oltre che vorticoso. Dopo la prima trasmissione, un amico che lavorava in Rai volle comunicarmi lo share della trasmissione. Da quella volta è stato chiaro per me che non avrei più chiesto niente. Non volevo essere preso dall’idolo dell’audience, la concupiscenza della “parrocchia” più grande d’Italia.

Altro momento, credo emotivamente importante, è stato quando nel 2007 ha preparato le meditazioni per l’Agorà dei giovani italiani. A Loreto si ritrovarono 500mila giovani. A distanza di 15 anni quali parole riserverebbe ai giovani?
Il cruccio è proprio che non sappiamo più parlare ai giovani. C’è una afasia della chiesa, tanti preti sono afoni, parlano e nessuno sente. Siamo come muti perché abbiamo perso l’ascolto. Ripartire da lì. E poi proporre, in primis proprio ai giovani, una parola molto cara alla bibbia: kum, alzati. Avanti, in piedi, in cammino. Il peggio che ci possa capitare è di restare immobili, seduti nella nostra confort-zone. E la seconda parola: torniamo umani. Limpidi, liberi, naturali, semplici. E la terza: userei l’amore e l’innamoramento come luogo privilegiato dell’evangelizzazione.

Lei è stato chiamato da Francesco a predicare gli Esercizi per il Papa e la Curia romana, esperienza raccolta nel libro “Le nude domande del Vangelo”. Un riconoscimento straordinario. Come definirebbe l’attuale Pontefice?
Un uomo libero e nuovo. Amico della vita. Persona compiuta, realizzata, riuscita, risolta. Per questo è rivoluzionario. Quando è con te, è tutto per te, per un minuto o dieci minuti, senti che è totalmente presente. Si sta bene vicino a lui, perché si sta bene vicino ad un uomo libero. Trasmette gioia, quando lo abbracci non smetteresti più.

A proposito di Francesco, come fa sovente il Papa anche lei non risparmia critiche ai sacerdoti che propongono prediche e liturgie mestissime. E provocatoriamente lei sostiene che è sorprendente che la Chiesa abbia ancora così tanti fedeli.
Mia chiesa, amata e infedele. Amata perché mi trasmette Cristo, nonostante. E la forza della chiesa non sta nei predicatori del vangelo, ma nel vangelo annunciato. Il cento per uno del campo di grano non dipende dalla forza o dalla bravura del seminatore, ma dalla bontà del seme. E la mano di Dio è una mano viva e non smette di riempire l’aria di germi e pollini buoni.

I seminari sono sempre più vuoti: è arrivato il momento di trovare nuovi criteri per individuare gli uomini, e le donne, che intendono dedicare la vita al Vangelo?
Nuove forme di reclutamento? Di più, dobbiamo ripensare la chiesa, adottare lo sguardo di Gesù sulle persone, non quello della teologia. Una donna ci ha dato il verbo, e ora una donna non può neppure leggere il vangelo alla messa? Ripensiamo il sacerdozio battesimale, quando ogni piccolo d’uomo è stato consacrato, con il sacro crisma, sacerdote, re e profeta.

Mi elenca i verbi malefici e quelli benefici, e quali prevalgono in questo momento storico?
Malefici, “maledetti” sono tre verbi: prendere (possedere e accumulare), salire (la più grande distanza dagli altri è porsi sopra gli altri), dominare (il piacere di comandare è il più diabolico, cioè il più divisore). Gesù propone un’inversione di rotta, come un granello di sabbia per inceppare gli ingranaggi della storia, attraverso tre verbi opposti, benedetti perché benefici: dare (donare, mettere a disposizione), scendere (prima tu, dopo io), servire. Che però sembrano verbi “trasparenti” che nessuno vede. E qui l’informazione ha grandi opportunità.

Come spiegherebbe all’uomo qualunque, a chi ha una fede incerta: “chi è Dio”?
Ma io non so quasi niente di Lui. Per me Dio è una luce calda, che mi invita oltre. Un abbraccio sempre aperto. Non è Colui che arriva dove io non arrivo, ad aggiustare i cocci della mia vita; ma è Colui che abbraccia la mia imperfezione, non l’onnipotente, ma l’onni-amante, l’onni-abbracciante, l’amore dentro ogni amore. Una sorgente perenne che non viene mai meno, a cui puoi sempre attingere. E i poveri hanno il nido nelle sue mani.

Lei l’ha capìta la ragione della guerra della Russia all’Ucraina? E papa Francesco ha fatto il possibile per spegnerla?
La guerra è preparata da una cultura della guerra, vi si contribuisce in tanti modi. La guerra comincia quando non si riconosce la stessa altezza ad ogni individuo, anche qui, tra noi; quando si aumentano le spese militari senza prima consultare il paese; quando l’istinto di predazione prevale sul sottovoce della comunione; quando tutti preferiscono la vittoria sull’altro alla pace con l’altro. O l’uomo elimina le frontiere o le frontiere elimineranno l’uomo. Il Papa è davvero l’unica voce autorevole che si alza contro la follia della guerra.

È vero che il suo sogno rimane quello di ridipingere l’icona di Dio, di trasmetterne una nuova immagine: quale?
Un Dio bello, solare, attraente, che ride e che gioca con i suoi figli. Un Dio che rende felice il cuore. Da sorprendere per le strade e per le case. Quanto può essere piccolo Dio: una pupilla d’occhio di colomba, granello di senape o anche solo il respiro di un uomo. Perciò bisognava essere molto composti. In fondo si tratta di passare, io per primo, da un cristianesimo di semplice conforto, per risolvere i problemi della nostra vita, a un cristianesimo di innamoramento, un supplemento d’ali. Ecco:un Dio senza casa, senza scuola, senza tempio, senza fissa dimora, sempre in viaggio, che chiede ospitalità e non vanta diritti che dipende e si fida del cuore, mendicante di casa e di pane. Un Dio che non occupa spazi, ma li libera. Che non chiude in recinti, ma apre porte e spinge fuori, ad acquisire bellezza del vivere.