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Andrea e Filippo: il mar rosso e la manna

(John S. Spong, Andrea e Filippo: il mar rosso e la manna, in “Il quarto Vangelo”, Massari 2013, pp. 163-172)

Il primo segno del Libro dei segni è la trasformazione dell’acqua in vino. Il secondo la guarigione del figlio del funzionario gentile. Il terzo l’offerta di vita nuova fatta all’uomo invalido da 38 anni. Adesso siamo arrivati al quarto e quinto segno, che in questo Vangelo sono in intima relazione l’uno con l’altro. Non sono storie sconosciute per i lettori degli altri Vangeli. In effetti, questi due episodi hanno avuto un’importanza notevole per tutta la prima comunità cristiana. Ogni Vangelo ha tra le sue pagine per lo meno un resoconto della miracolosa nutrizione della moltitudine nel deserto, e due dei Vangeli, Marco e Matteo, hanno ciascuno due versioni della storia, una che ha luogo sulla sponda ebraica del Iago (con cinque pani e due pesci), dei cui resti vengono riempiti dodici canestri, e l’altra sulla sponda gentile del Iago (con sette pani e qualche pesce), dei cui resti si riempiono sette canestri. Connesso a queste storie di nutrizione in ciascuno dei quattro Vangeli c’è un secondo evento che pare miracoloso, cioè l’abilità di Gesù di camminare sulle acque.

Giovanni seguirà questo schema e collegherà queste due narrazioni usando la nutrizione della moltitudine come quarto segno nel suo Libro dei segni, mentre il racconto di Gesù che ha il potere di camminare sull’ acqua diventerà il quinto. Per capire questi due segni dobbiamo poter vedere la loro connessione.

Com’è tipico dell’autore del quarto Vangelo, però, egli svilupperà questi due racconti in modo ben diverso da quello dei primi Vangeli e, così facendo, prenderà i nomi dei due discepoli, che nelle tradizioni precedenti sono solo nomi, e li rivestirà di personalità specifiche, e attraverso di loro svilupperà e collegherà i due segni. Fatemi prima di tutto distaccare questi due discepoli, Andrea e Filippo, dalla tradizione sinottica e poi mostrare come Giovanni li trasforma per i suoi fini letterari e teologici.

Marco aveva per primo introdotto Andrea come il fratello di Simon Pietro circa trent’anni prima. In quel Vangelo, Andrea e Pietro venivano ambedue definiti come pescatori. Secondo Marco erano stati i primi discepoli a essere scelti da Gesù, che li aveva invitati a lasciare il loro lavoro di pescatori e diventare suoi seguaci (Mc 1,17). Questo è tutto il materiale biografico che abbiamo su Andrea fino alla composizione del quarto Vangelo.

Filippo è menzionato ancora di meno nei Vangeli precedenti. Il suo nome compare solo nella lista dei Dodici in Marco (3,13 19), Matteo (10,1-6) e Luca (6,12-16). In tutte e tre le liste è al quinto posto dopo Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea. A parte questo nome, comunque, in quella tradizione più antica non si può trovare una singola nota biografica su Filippo, il che lascia l’autore del quarto Vangelo con un campo aperto da riempire con la sua immaginazione.

Giovanni comincia ponendo Andrea e Filippo nel contesto di una celebrazione liturgica nella sinagoga. Ambedue i segni, la nutrizione della moltitudine e il racconto di Gesù che cammina sull’acqua, saranno imperniati sull’osservanza di Pesach.

In rapporto a Filippo, Andrea ha chiaramente il ruolo principale nello svolgimento della narrazione, mentre Filippo gli fa da spalla. Il fatto che Andrea e Filippo siano i due discepoli con un nome greco (non-ebraico) può dare un’idea dei motivi che spingono Giovanni a sviluppare la storia così come fa e può quindi fornire un’indicazione interessante, ma, non potendo esserne certi, la considero solo una possibilità.

Il sesto capitolo inizia con Gesù sulla riva orientale del mare di Galilea, una zona selvaggia. Una grande folla, attirata dai segni descritti prima, lo ha seguito. Gesù e i suoi discepoli salgono sulle colline. Li si siedono e osservano la moltitudine che si dirige verso di loro. Rivolgendosi a Filippo, Gesù chiede: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». È una strana domanda. Apparentemente Gesù ritiene di essere responsabile di sfamare la gente. Questa non può essere veramente un’aspettativa in senso letterale, ma serve a Giovanni per preparare la scena per la sua narrazione. Filippo, rendendosi conto dell’assurdità della domanda, risponde in modo simile a quello che abbiamo visto fare alle persone con una mentalità letterale. Se si percepisce la domanda letteralmente, si deve dare una risposta letterale. La domanda, commenta Giovanni, ~ una prova intesa a misurare il livello di comprensione di Filippo, poiché Gesù (ci viene detto), credendo di essere il «pane di vita», sa bene che cosa fare. Filippo però, incapace di comprendere, risponde letteralmente: «Duecento denari di pane non sono sufficienti» neppure per dare a ciascuno un assaggio.

Andrea entra allora in scena con un ‘informazione che sembra ugualmente irrilevante. «C’e qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci» (Gv 6,9). È una piccola cosa, una goccia nel proverbiale oceano del bisogno che si trovavano davanti. Tuttavia Gesù prende questo dono apparentemente insignificante e invita la gente, che si dice fosse nell’ordine delle migliaia, a sedersi sull’erba. Rende grazie e poi comincia a distribuire il pane e i pesci. La gente mangia «quanto ne volevano» (Gv 6,11). Poi Gesù ordina ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perchè nulla vada perduto» (Gv 6,12). Li raccolgono e riempiono dodici canestri con gli avanzi. Quando l’atto di nutrire è compiuto, la gente dice: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!» (Gv 6,14), un noto riferimento giovanneo a una promessa di Mose. Poi ii testo dice che Gesù, avvertendo che «venivano a prenderlo per farlo re» (Gv 6,15), si ritira da solo sulle colline. Questo ritiro crea le condizioni perchè Gesù vada dai suoi discepoli più tardi quella notte camminando sull’acqua.

Dobbiamo senza dubbio riconoscere che questa non è una descrizione letterale di un evento accaduto realmente nel tempo. Leggere il racconto letteralmente significa fraintendere totalmente le intenzioni di Giovanni. Ritengo che questo valga anche per i Vangeli sinottici e per le intenzioni dei loro autori, anche se il loro linguaggio non è così chiaro. Saro più specifico. Sono convinto che non ci sia mai stato un momento in cui Gesù abbia moltiplicato le riserve di cibo e nutrito le masse affamate, o abbia camminato sull’acqua in modo soprannaturale! Possiamo capire a fondo il senso di questo episodio se esaminiamo prima di tutto il significato attribuito al discepolo Andrea, poi quello attribuito a Filippo e infine ciò che queste storie vogliono dire all’ interno della tradizione ebraica, che dette ai seguaci di Gesù gli orecchi per udire ciò che gli scrittori del Vangelo volevano comunicare.

Andrea, così come Giovanni lo ritrae, sembra una di quelle persone che hanno solo un’identità riferendosi a qualcun altro. Si ricordi il modo in cui questo Vangelo introduce Andrea e Filippo. Andrea, ci viene detto, era un discepolo di Giovanni il battezzatore che, quando sente la testimonianza di Giovanni su Gesù, comincia a seguirlo. Gesù si rivolge a lui e gli dice: «Che cosa cerchi?». Andrea risponde: «Rabbi, dove dimori?». Gesù dice:

«Vieni e vedrai». Andrea va, vede e rimane quel giorno con Gesù. Ci viene detto che al termine della visita Andrea va subito a cercare suo fratello Simone per annunciargli: «Abbiamo trovato il Messia». Allora arriva Simone, e Gesù lo guarda e immediatamente gli dà il soprannome Pietro, che significa «Pietra» (Gv 1,42).

Filippo è introdotto il giorno dopo. Gesù trova Filippo e invita anche lui a diventare suo discepolo. In questo precedente episodio, a proposito di Filippo ci viene solo detto che proviene da Betsaida, la stessa città in cui vivono Andrea e Pietro. Filippo poi se ne va e trova la persona chiamata Natanaele e gli ripete l’identificazione di Gesù usata prima, un punto che Giovanni continua a sottolineare: Gesù è colui del quale ha scritto Mosè nella Legge, colui che i profeti hanno indicato. Identificandolo in maniera più precisa, Filippo lo chiama «Gesù di Nazareth, figlio di Giuseppe» (1,45). E un’identificazione sorprendente, poiché in questo Vangelo non c’è il racconto di una nascita miracolosa. Gesù è considerato il figlio di Giuseppe.

Così Giovanni caratterizza Andrea e Filippo come missionari che rispondono all’invito di seguire Gesù portando un’altra persona a diventare discepolo. Andrea, tuttavia, e sempre rispettoso, contento di avere il ruolo della persona insignificante. Andrea è il custode che apre la porta agli altri e che permette che accadano grandi cose. Pare non abbia bisogno di uno status o di accumulare apprezzamenti. Per me è come il santo patrono della gente comune.

Questa tema è presente anche quando Giovanni narra che Andrea porta da Gesù il ragazzo con i cinque pani e i due pesci. Davanti a lui c’è una moltitudine affamata e lui la affronta con la merenda di un ragazzino! Ma nella mente di quest’uomo modesto non c’è dono che sia troppo piccolo o insignificante da non essere usato e persino valorizzato. Così ora che Gesù è a conoscenza del dono del ragazzo, Andrea, che ha facilitato l’incontro, sta lì a guardare lo svolgimento degli eventi e la folla che viene saziata.

Dietro questa storia si profila chiaramente la figura di Mose. Per questo Giovanni ha ripetuto così tante volte la designazione di Gesù come il profeta promesso da Mosè.

Se deve essere identificato nel ruolo designato da Mose, allora le storie di Mose si devono poter avvolgere intorno a lui. Presumibilmente le due storie più drammatiche a proposito di Mose sono il potere mostrato nel nutrire la moltitudine affamata nel deserto con il pane celeste chiamato manna, che era piovuto dal cielo, e quello mostrato nel dividere il Mar Rosso. Sono ambedue storie di sopravvivenza. Dio, per mezzo di Mose, aveva salvato i figli d’Israele da una morte per fame e Dio, per mezzo di Mose, li aveva salvati dalla morte per mano degli egiziani, lasciando quest’ultimi annegare in mezzo al mare. Nelle Scritture ebraiche prima c’era la storia del Mar Rosso, seguita da quella della manna nel deserto, mentre Pesach nella notte dell’esodo precedeva il Mar Rosso. Poiché Giovanni descriverà la nutrizione della moltitudine come un pasto di Pesach, mette quella storia prima del racconto in cui Gesù mostra il suo potere sulle acque e in cui non divide le acque del Iago per camminare sulla terra asciutta, ma cammina sull’acqua per arrivare da loro e portarli al sicuro. La nutrizione della moltitudine e Gesù che cammina sull’acqua sono sempre insieme perché ambedue questi racconti sono storie di Mose e sono insieme nel racconto dell’esodo.

Cosi si rivela che Gesù, il profeta anticipato da Mosè, ha il potere posseduto dal Dio di Mosè. Può nutrire con il pane una moltitudine affamata nel deserto. Può trascendere la barriera creata dall’acqua quando deve essere attraversata. Giovanni sviluppa queste immagini nel suo modo caratteristico.

II Gesù di Giovanni sosterrà di essere lui stesso «il pane di vita», che soddisfa la fame più profonda dell’anima umana; inoltre, collocando questo episodio della nutrizione nel tempo di Pesach, Giovanni identifica consciamente Gesù con l’agnello pasquale. Più in là esporrà questa identificazione rifiutando di considerare l’ultima cena come un pasto di Pesach, come avevano fatto gli altri Vangeli. Al contrario, sceglie di far accadere la crocifissione di Gesù il giorno della preparazione di Pesach, cosicchè Gesù sarà crocifisso proprio al momento esatto in cui viene ucciso l’agnello pasquale. Si ricordi che Giovanni il battezzatore ha già fatto riferimento a Gesù, nel Vangelo di Giovanni, come all’ «Agnello di Dio».

In tutti e due gli episodi Giovanni farà usare a Gesù il nome di Dio: IO SONO evoca ancora una volta il legame con Mose (Es 3,1 -14) . Anche Giovanni racconta queste due storie in una sola ininterrotta narrazione.

Dopo aver saziato la moltitudine, Gesù comincia a istruirla sul significato de] cibo appena consumato. Il cibo offerto da Gesù non va confuso con il cibo che soddisfa la fame temporanea. Si tratta, dice Gesù, di un cibo che «rimane per la vita eterna». Per assicurarsi che i lettori capiscano il senso di questa storia sulla nutrizione, Giovanni fa sì che Gesù la metta direttamente in relazione a Mose nel deserto, ma poi la eleva a un altro livello, un livello più alto. Quando uno mangia per soddisfare la fame fisica, dice Gesù, la soddisfazione non è mai permanente. Si ha sempre nuovamente fame. Solo il pane di Dio che dà vita al mondo potrà soddisfare la più profonda fame umana. I discepoli ascoltano, ma non capiscono. Allora Gesù dice una delle cose più provocatorie mai riportate da Giovanni: «Dovete», perciò, «mangiare la mia carne e bere il mio sangue».

Nella loro mente le mura del letteralismo si ergono a bloccare la comprensione. Mangiare la carne e bere il sangue non sono immagini piacevoli, anzi sono piuttosto repellenti. Giovanni sta dicendo ai suoi lettori di prendere la vita di Gesù dentro la loro. Mangiare la sua carne è l’espressione scelta per comunicare proprio questo.

Improvvisamente Giovanni ci dice che questo discorso sul mangiare la carne e bere il sangue ebbe luogo mentre Gesù stava «insegnando nella sinagoga a Cafarnao» (Gv 6,59). Noi lettori pensavamo che avesse avuto luogo nel deserto o su un monte, ma dobbiamo prendere nota che avvenne «nella sinagoga».

Al tempo in cui Giovanni scriveva, i discepoli di Gesù erano già stati cacciati dalla sinagoga. Quindi Giovanni stava dicendo loro che Gesù doveva essere per loro sia un nuovo Mose, sia una nuova via per comprendere il significato di Dio. Gesù non era per loro semplicemente un altro percorso religioso, per quanta diverso. Adesso erano per sempre fuori dalla sinagoga, ma ci che Gesù offriva non richiedeva una sinagoga o la Torah. In ultima analisi, dovevano vedere Gesù, ci dice Giovanni, come una parte di chi Dio è, che sale «là dov’era prima» (Gv 6,62). E a questo punto che perfino i Dodici si ritrassero, scegliendo di non seguirlo più. I discepoli sembravano preferire la sicurezza religiosa dalla quale erano stati espulsi, piuttosto che ansia di camminare verso un nuovo luogo nella loro vita dello spirito.

Questo è il motivo per ii quale, quando i discepoli abbandonarono Gesù e presero le barche per attraversare il Mare di Cafarnao, chiamato anche mare di Galilea, Giovanni dice che era «buio». Per questo evangelista, l’oscurità è sempre una metafora per l’essere separati da Cristo. I discepoli erano soli sul mare. Le onde stavano crescendo, soffiava un forte vento. Era difficile remare. E a questo punto che viene detto che Gesù li raggiunse «camminando sul mare». Mentre si avvicinava, i discepoli erano in preda alla paura, ma lui disse loro «IO SONO». Questo non è il modo in cui il testo è tradotto, perché neppure i traduttori hanno capito il senso di queste parole. I traduttori fanno dire a Gesù «Sono io», come se i discepoli avessero solo bisogno di una qualche identificazione, ma le parole greche del testo originale sono ego eimi: «IO SONO». Gesù stava rivendicando il nome di Dio. Io sono la vita di Dio, diceva, che vi chiama verso qualcosa di nuovo, qualcosa di pauroso e pericoloso. Io sono l’amore di Dio che v’invita a superare le vostre barriere difensive, le vostre mura di sicurezza, per entrare in una nuova comprensione di ciò che significa essere umani. Mangiate la mia carne: prendete la mia vita nella vostra. Bevete il mio sangue: aprite il vostro spirito al mio. Ricevetemi dall’acqua nella vostra barca.

I segni di Mosè la manna e il Mar Rosso sono avvolti intorno a Gesù e sono trascesi in Gesù. Si aprono nuove porte. La comunità di Giovanni comincia a vedere quanto sia profonda la separazione tra la luce e l’oscurità, tra la coscienza di sè e la coscienza universale, tra la vita umana e la vita eterna. Il dramma s’intensifica, il dolore della scelta e della separazione è forte. A questo punto questi due segni sono completi e la storia di Giovanni continua. Vengono ora in primo piano non le domande sul destino di Gesù, ma quelle sulle sue origini.