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Ecco l’uomo

da “Un Dio diverso” di Raphaël Buyse

Classe IV A. Ora di religione. “Soldatino” (che soprannome terribile per un prete!) ci fa imparare a memoria il Vangelo secondo Luca. Di mercoledì in mercoledì è sempre lo stesso. Tutto il suo programma e la sua pedagogia si riducono a questo. Con il passare del tempo quel vangelo s’inscrive nella mia memoria, e man mano che il cuore vi aderisce il testo diventa Parola.

Sovente, il martedì sera, maledicevo Soldatino. Ma dopo quell’anno mi è capitato spesso di ringraziare per quell’uomo che mi ha portato al cuore del vangelo.

Da allora mi commuovo di fronte al volto di Gesù, al suo sguardo, alla sua Parola e ai suoi gesti. Senza saperlo, Soldatino mi ha attirato nel vangelo: ha fatto sì che preferissi quel lembo di Palestina al continente matematico.

Da adolescente mi tuffavo in quei racconti, mi nascondevo tra il fogliame di un sicomoro. Gironzolavo attorno al lago, mi attardavo sulla spianata del Tempio, mi sedevo sul bordo del pozzo di Giacobbe. M’intrufolavo tra la folla degli ascoltatori di Gesù: che cosa venivano a cercare da lui? Man hu’: “Di che si tratta?”.

Immaginavo di essere con i discepoli sulle strade della Galilea. Li sentivo parlare e ridere. Ascoltavo le loro discussioni. Mi autoinvitavo da loro e mi sentivo a mio agio. La loro tavola era accogliente.

Ero colpito da colui che essi seguivano. Le parole del vangelo imparato a memoria avevano inoculato in me una passione per il suo modo di andare e venire, di fermarsi, di rimettersi in strada, di parlare, di ascoltare, di guardare alla vita, di credere ai più piccoli, di immaginare il Padre, di stanare gli ipocriti. Sapevo che avrei amato per sempre il suo modo di andare incontro agli esseri umani così come si accoglie un nuovo giorno.

Gesù mi rivelava implicitamente l’umanità profonda di Dio. Quel pellegrino infaticabile mi prendeva per mano e mi attirava nel suo mistero. Ero conquistato.

La sua compassione mi appariva come una chiave che apre le porte dell’essenziale. La sua straordinaria umanità mi lasciava intravedere in profondità un Dio amante, una sorgente, un abisso infinito. Più lo guardavo, più intuivo che non avrei mai potuto conoscere Dio con un approccio intellettuale: da Gesù – e solo da lui – ne avrei avuta la rivelazione.

Gesù era entrato nella mia storia.

Non ho mai smesso di commuovermi di fronte a lui. Non mi sono mai stancato di vederlo camminare verso gli esseri umani senza mai mancare l’incontro.

Vede un uomo emarginato, che è stato lasciato sul ciglio di una strada, abbandonato dai suoi? Gli si avvicina. Con delicatezza. Senza grandi discorsi. Si inginocchia e lo rialza. Resto affascinato da questo.

Vede una donna braccata come una bestia da vecchi maniaci, che non sanno vivere in prima persona la morale che vogliono difendere? Lui la accoglie in silenzio. Non la guarda per non farle provare vergogna. Le sue dita che giocano con la sabbia sembrano dire la vacuità della violenza dei presenti. Con una domanda impertinente rimette a posto i viziosi battitori: sono in trappola! Gesù riporta quella donna terrorizzata sulla soglia del suo futuro: “Va’!”.

Vede in un cimitero un essere umano che vaga tra le tombe, sfigurato dalla follia e da una rabbia che si ritorce contro di lui? Va incontro a quel morto vivente. Lo riporta alla ragione. Lo rimette in piedi. Quell’uomo di Galilea mi affascina.

Lo accolgono? Si ferma, si mette a tavola. Si lascia coinvolgere nella vita dei presenti.

Lo adulano? Lo corteggiano? Fugge via. Un povero grida? Lui lo sente subito.

Dei ragazzini fanno baccano? La cosa lo diverte e li chiama a sé.

Mi commuove vederlo soddisfare le attese più essenziali delle persone. Il suo sguardo raggiunge ciò che vi è di più umano: ricostruisce la fiducia perduta, l’autostima schernita, il piacere di stare con gli altri, che così spesso dimentichiamo.

 Quando apriamo i vangeli scopriamo un uomo che certo è alle prese con la complessità spesso drammatica della vita, ma è comunque capace di entrare immediatamente in contatto con il punto vitale in coloro che incontra: quel luogo misterioso dal quale possono liberarsi energie di vita insospettate. È quello che mostra a coloro che lo circondano, suscitando, senza molte parole, il desiderio di acquisire lo stesso tatto, la stessa delicatezza, nell’approccio con l’esistenza umana. (Ch. Theobald, “Trasmettre un évangile del liberté”, Paris 2007)

Gesù? Una capacità di entrare in contatto con arte, con delicatezza, senza molte parole. Per divenire più umani? È sufficiente contemplarlo: esperienza unificante.

Ieri come oggi sa risvegliare il gusto della vita in coloro che si lasciano incontrare. Ama l’uomo in armonia nel corpo, nella mente e nell’affettività. Sogna un essere umano inscritto in una rete di relazioni positive. Ascolta la vita, e coglie solo ciò che fa vivere. Reintegra. Si rallegra vedere persone che si riconciliano con se stesse, con gli altri. Accoglie senza diffidenza il bisogno di tenerezza. Ama la festa. Desidera che si tenga conto dei piccoli. In un mondo arido e duro, porta una ventata di freschezza nella vita di persone ininfluenti, senza voce, senza potere, senza amore.

Non fa dissertazioni su quel Dio del quale lui ha compreso tutto. Lo rivela narrando semplicemente brevi storie delle quali possiede il segreto. Ne parla come di un folle che dona senza fare calcoli, che semina senza preparare il terreno, che ama i banchetti di nozze e ignora con disinvoltura le convenzioni. Il Dio che ci lascia intravvedere nelle profondità del suo essere è un Padre che sosta, ogni mattina, alle porte del suo podere: attende senza mai venir meno l’improbabile ritorno di figli scellerati, e quando li scorge, corre loro incontro, anche se è anziano.

Dio – ci informa Gesù – è ben più giovane del mondo.

Ho imparato il vangelo a memoria, senza mai prenderlo alla lettera. Da tempo ho compreso che quelli che hanno scritto quei testi l’hanno fatto nel linguaggio della loro epoca. Era l’unico modo che avevano per esprimere qualcosa dell’intensità della vita vissuta con Gesù e dell’inaudito del regno di Dio che aveva incrociato la loro storia. Nessuna parola potrà mai esprimere appieno quella sensazione bruciante.

Amo seguire Cristo senza credere agli angeli che cantano in cielo, ai pastori che trovano un neonato in una città sovrappopolata come si trova un ago in un pagliaio, a un re che avrebbe riposto piena fiducia in un manipolo di stranieri giunti a parlargli del pretendente al trono che avrebbe dovuto nascere in una borgata vicina. Da tempo non credo più alla storicità della pietra rotolata, all’ascensione al Monte degli ulivi, al Signore che passa attraverso i muri e alle lingue di fuoco, ma credo nella grande promessa dell’uomo di Nazaret. La sua vita mi dà modo di credere nella profonda umanità di un Dio che è Sorgente e Padre.

Non posso parlare di lui all’imperfetto: qui e ora egli è al lavoro. Quelli che lo seguono da più di duemila anni adottano il suo modo di stare al mondo e di porsi al servizio dell’uomo fin dal primo contatto e prima di ogni altra cosa. Sanno che la vita di Cristo non si trasmette con i discorsi. Vivere autenticamente in memoria di lui significa innanzitutto prendersi cura dell’uomo. Essi indossano con bontà le sue vesti di umile pastore.

Il suo passaggio è una promessa. Unifica la vita di coloro che seguono i suoi passi. Diventano fratelli e figli.

Il “vieni, seguimi” del vangelo apre vie inaspettate. Rispondere semplicemente “sl” al suo invito è decisamente meglio che continuare a chiedere senza sosta: “Dove mi stai portando?”. Attira coloro che gli danno fiducia sulle rive di una vita più intensa. Non li chiama dall’esterno: li rimanda alle profondità del loro essere dove egli già dimora. Il suo “vieni, seguimi” non è che un’altra traduzione del “va’ verso te stesso!” di Dio ad Abramo. Non è null’altro che un sublime: “Diventa quello che sei: là io ti attendo”.

Ho imparato da Gesù a non credere più che Dio è al di sopra di noi, ma che abita nell’intimo del nostro essere. Discreto e silenzioso. È il suo Spirito che ci ispira amore, creatività e audacia.

Il suo silenzio apre il possibile e rende l’uomo responsabile.

La chiesa, con un linguaggio che non è più realmente eloquente per i contemporanei, non fa che ripetere che quell’uomo ci salva. Ma da cosa? Dal peccato, come si continua a ripetere?

Man hu’ : “Di che si tratta?”.

Preferisco pensare che quell’uomo ci salva dalla disumanità e dalla scissione. Se ci salva, è dalla nostra incapacità di essere all’altezza dell’umano: dalla disperazione, dalla mancanza di fiducia in noi stessi, nell’altro, nel presente e nel futuro. Se ci salva, è dalla scarsa fede che abbiamo nella vita, in lui, nella sua presenza. Dalla nostra indifferenza, dalle chiusure, miopie, sordità, dalla sclerosi del cuore che ci impedisce di vivere.

Se ci salva, è dal panico, dalla paura di un Dio presentato come uno che vorrebbe farci pagare il diritto di vivere; da quell’angoscia che paralizza e troppo spesso trasforma quei cattivi credenti che già siamo in esseri striscianti.

Se ci salva è da quell’immagine tenace che vorrebbe farci credere che Dio si attende da noi sacrifici, una sorta di pedaggio, e che ha fatto della vita spirituale un’imposta da pagare. Ci ha “riscattati”, si dice: Gesù sarebbe il prezzo del riscatto e noi il popolo dei riscattati? Personalmente non amo quelle parole: quando le si ascolta, si rischia di dimenticare la grazia.

Se Cristo ci libera è dalle certezze nelle quali l’abbiamo rinchiuso; è dalle catechesi con il marchio di garanzia, dalle formule magiche e da quei piccoli riti che a volte sfiorano la nevrosi. Se ci libera è dalla religione che legittima tante forme di potere e di influenza. È dal senso di colpa che avvelena l’esistenza e impedisce di vivere, danzare, amare.

Se salva è dal ripiegamento sul peccato nel quale noi invece amiamo rimanere. Egli ci insegna che il peccato è superficialità, incapacità di sentire e vivere l’intensità dell’esistenza. Ci insegna che Dio – la Vita che attraversa la vita – si stupisce che l’uomo non cerchi di divenire più umano.

Ci insegna con gioia che Dio ci vede solo in una prospettiva di vita e che non abbiamo bisogno di mendicare la sua benevolenza.

Dio, dice Gesù, non entra nelle valli delle nostre lamentazioni. E ci lascia intendere che Dio non potrebbe mai abbandonare l’uomo in questo marasma. In Cristo si sono rivelate la vera umanità, la grazia e la gioia di essere persone. È in questo senso che egli è “salvatore” e onora in sé l’umanità.

Nella sua vita profonda Dio ci visita. All’uomo che si lascia incontrare egli concede la vera misura dei suoi giorni. Per seguirlo non c’è da imitarlo pedissequamente, perché sono passati duemila anni, e l’imitazione troppo spesso si riduce a una scimmiottatura. Essere umani in memoria di lui è adottare nel presente la sua arte di vivere e declinare per il mondo in cui viviamo tutto ciò che egli è stato, come fa chi ha buon gusto nell’accostare i colori degli abiti che indossa. Contemplandolo si comprende che sono veramente umani solo quelli che, come lui, sanno di essere poveri di cuore, coloro che accettano i limiti del mondo in cui vivono, l’ordinarietà dei giorni; coloro che, come lui, osano lasciar scorrere le lacrime, preferiscono la mitezza alla violenza, rischiano la vita per la giustizia; coloro che, come lui, sanno perdonare, conservano puro il cuore, cercano la pace; coloro che, come lui, sono pronti a sopportare l’insulto e il disprezzo per restare fedeli.

Da lui impariamo che non vi è vita più umana di una vita donata e disponibile a ciò che accade. Egli la trasforma dall’interno.

Da lui impariamo a essere servi e non padroni, responsabili del divenire degli altri senza caricarli dei nostri fardelli; a rendere gli altri liberi invece di alienarli; a vivere più semplicemente e a donare gioia. Impariamo il valore del silenzio e della presenza che acconsente agli eventi e agli incontri della vita.

Paura del futuro e rimpianti del passato si dissolvono quando teniamo gli occhi fissi su Gesù. È lui che ci dà l’audacia di andare incontro a ciò che accade.

Che dire ancora di lui? Vorrei sottolineare soltanto quattro atteggiamenti che lo rendono infinitamente umano e che fanno di lui un essere unificato, un “monaco”.

Sa stare sempre là dove la vita lo conduce. Non cerca di fuggire altrove. Non vive di nostalgie, nell’immaginario. È presente, pienamente presente. Offerto. Esposto. Consegnato. Spezzato. Presente a coloro, uomini e donne, che sono sul suo cammino. Stabile. Monos.

È obbediente. Mai costretto suo malgrado.

Mai asservito e sottomesso. Con cuore e mente dilatati si pone in ascolto della vita e si mantiene disponibile. Monos.

È povero. Sceglie quella semplicità che non è miseria. Questo lo rende libero di incontrare, di arricchire la vita degli altri. Monos.

Ama di un amore che non divora l’altro, ama senza fare riserve di se stesso. Senza meschinità, senza enfasi. Gioiosamente. Monos.

Pienamente fratello dei suoi contemporanei e pienamente figlio di un Dio che continua instancabilmente ad amare… Egli è colui che noi siamo chiamati a divenire, quello che anch’io vorrei essere…

Per divenire più umani non resta che seguirlo. È quello che cerco di fare. Perché: “Ecco l’uomo!” (Gv 19,1).