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L’uomo paralitico da 38 anni

(John S. Spong, L’uomo paralitico, in “Il quarto Vangelo”, Massari 2013, pp. 153-162)

Ho il sospetto, come ho già accennato, che nell’ordine originale del Vangelo di Giovanni il capitolo 6 seguisse il capitolo 4 e fosse seguito poi dal capitolo 5. Riorganizzato in questo modo, il testo ha certamente una logica dal punto di vista geografico e questo convince molti studiosi.

Comunque, che sia vero o no, l’ordine attuale non incide né sulla storia né sullo sviluppo dei principali personaggi giovannei, quindi rispetterò quest’ordine e metterò a fuoco adesso il personaggio mitologico dell’uomo paralitico (Gv 5,1 sgg.). L’autore inquadra questo episodio con molta attenzione, usando dettagli espliciti.

Gesù sale a Gerusalemme. Nel quarto Vangelo, contrariamente ai sinottici, Gesù va a Gerusalemme in molte occasioni. Quella che lo spinge ad andare questa volta a una festa degli ebrei che dal tempo delle riforme deuteronomiche del VII secolo a.C. richiedeva di essere celebrata solamente a Gerusalemme. Questo Vangelo non ci dice quale sia questa festa, probabilmente perché sta combinando due festività e si accontenta solo di menzionare la festa per fornire il contesto della storia. Sebbene degli accenni al conflitto tra la Sinagoga e la comunità giovannea siano già emersi chiaramente in questo Vangelo, in tale episodio il conflitto esplode con rinnovata intensità e comincia a delinearsi l’esito finale che, secondo l’autore del quarto Vangelo, si rivela nel modo in cui il popolo arriverà a comprendere la morte di Gesù. Questo Vangelo interpreterà la sua morte come luce che viene estinta dal buio in un mondo in cui Dio è stato ridotto a essere in primo luogo il creatore di norme religiose e non qualcuno che ci chiamerà ad assumere radicalmente la nostra umanità. Per Giovanni, il bisogno religioso di diminuire e perfino di distruggere la vita, un bisogno che sembra emergere regolarmente nella storia religiosa, è quasi equivalente a un attacco contro Dio, che lui considera la fonte della vita. Poiché abbiamo scoperto che Giovanni, per esprimere le sue tesi, fa uso di persone e circostanze mitologiche, non siamo sorpresi di vederlo presentare un altro dei suoi personaggi unici, un paralitico non altrimenti identificato, nel quale è viva la lotta per acquisire una nuova coscienza.

Gesù è a Gerusalemme e va in un luogo conosciuto per essere frequentato da persone in cerca di guarigione. Presso un portale noto come Porta delle pecore c’è una piscina che in lingua ebraica si chiama Betzatà, anche se altre versioni sono «Bethesda» e «Bethsaida». Intorno a questa piscina ci sono cinque portici, sotto i quali giace un gran numero d’infermi. Giovanni caratterizza queste vittime come «ciechi, zoppi e paralitici». Sono esempi di vita umana anelante alla pienezza.

A quanto pare intorno a questa piscina si era raccolto il folclore originato dalla mitologia ebraica. Si diceva che periodicamente le acque della piscina si agitassero miracolosamente e che in quei momenti avessero potere terapeutico. La credenza popolare era che il primo a immergersi nelle acque agitate sarebbe guarito. L’attrazione per i miracoli di guarigione ha una lunga storia nell’esperienza umana, come mostrano santuari per la guarigione quali Lourdes o Fatima e come testimonia la quantità di guaritori religiosi. Temo che ii desiderio sia talvolta I’ artefice della realtà. Anche la piscina di Betzatà aveva acquisito questa reputazione popolare.

In questo contesto, l’autore del nostro Vangelo mette in primo piano uno degli invalidi. La sua afflizione e l’inabilità a camminare. Un particolare così specifico come la notizia che questa persona è stata invalida per trentotto anni desta sempre sospetto. Il numero di anni rappresenta una traccia storica o una verità simbolica? Io ritengo che sia simbolico, ma il suo significato si è perso nelle sabbie del tempo. Forse aveva a che fare con il numero di anni durante i quali erano aumentate le tensioni tra i seguaci di Gesù e le autorità della Sinagoga, che portarono all’espulsione dei cristiani, che avvenne intorno all’88 d.C., anche se nessun evento nel 50 d.C., cioè 38 anni prima, può essere fissato come momento iniziale. La storia indica, comunque, un periodo di una certa durata durante il quale i seguaci di Gesù dovettero sopportare da parte delle autorità religiose una lacerante persecuzione e una situazione di vita paralizzante, mentre lottavano in uno stato di continua aspettativa, sperando sempre, contro ogni speranza, di riuscire a risanare la ferita.

Ci sono altri dettagli in questa storia che sembrano convalidare questa ipotesi, ma non credo si possa insistere troppo su di essa. Tenete semplicemente in mente questa possibilità mentre la storia si sviluppa.

Ancora una volta l’autore attribuisce a Gesù la chiaroveggenza. Gesù sa che quest’uomo è rimasto bloccato in questa condizione di attesa e di speranza per molto, molto tempo (Gv 5,6). Gli parla direttamente: «Vuoi guarire?». L’invalido risponde con una scusante: «Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, un altro scende prima di me». L’indecisione è sempre colpa di qualcun altro. Non è mai facile uscire dalle forme religiose del passato che ci sono familiari ed entrare nella libertà postreligiosa del futuro. Ci vuole coraggio e la volontà di pensare al di fuori dei limiti religiosi. Nessuno ammette facilmente la sua mancanza di coraggio o il peccato d’indecisione.

Gesù supera subito queste paure debilitanti dicendo: «Alzati, prendi la tua barella e cammina» (G» 5,8). Il comando dà forza all’uomo che si alza immediatamente, prende la sua barella e cammina. Poi Giovanni nota che «quel giorno era lo shabbat» (Gv 5,9). Casi vengono introdotti i termini del conflitto. La nuova vita e la nuova pienezza sono ostacolate dalle norme religiose del passato. Questa è la difficile situazione in cui si viene a trovare quest’uomo, prima invalido e ora integro. Aprendosi alla pienezza, trema perché non può più sfuggire alle sue paure dentro le giustificazioni del suo passato. Quante volte succede che, dopo aver fatto una cosa coraggiosa, si tremi per la propria audacia!

Nel frattempo, i capi religiosi della Sinagoga osservano che quest’uomo, prima invalido, trasporta la sua barella nel giorno dello shabbat, compie cioè un’attività definita come lavoro e perciò un atto che viola le regole del giorno dello shabbat. Immediatamente entrano in scena quelli che si considerano arbitri di ciò che è permesso. All’ex invalido dicono: «E sabato e non è lecito portare la tua barella». Lui risponde dicendo: «Colui che mi ha guarito mi ha detto: “Prendi la tua barella e cammina”» (Gv 5, 11). Una risposta debole, ma familiare: non sono responsabile, stavo solo eseguendo ordini. Questa scusa è stata usata molte volte nel corso della storia umana. E la tipica presa di posizione di chi ha difficoltà ad afferrare la vita insieme alla responsabilità che questo comporta per ciascuno di noi.

«Chi è quest’uomo [che ti ha guarito]?», gli chiedono le autorità della Sinagoga, sentendo odore di un bersaglio forse più importante. Se non sarai responsabile del tuo comportamento, cercheremo chi ti ha autorizzato a non rispettare la legge. «Non lo so», risponde l’uomo guarito. In effetti, la storia rivela la verità di quest’affermazione. Non conosceva la fonte della sua nuova e gioiosa esperienza di libertà. Gesù si era ritirato, nota giustamente lo scrittore.

Poco dopo, racconta Giovanni, Gesù trovo quest’uomo nel Tempio e gli dette un’altra possibilità di scegliere la fede al posto della paura, la vita invece della religione.

«Ecco: sei guarito!», disse Gesù. Non affogare di nuovo nelle tue paure e nei tuoi comportamenti del passato. Chi non sopporta la pienezza e la vita, chi si rifugia ancora una volta nella sicurezza dell’attaccamento alla propria dolce malattia spesso non ha il coraggio di cercare una seconda opportunità.

L’ex invalido and allora immediatamente dai capi della Sinagoga e identificò Gesù come fonte della sua guarigione, e quell’indicazione porta a una nuova persecuzione di Gesù. Le autorità religiose del momento affermavano in quel modo che non si può arrivare alla pienezza rompendo le norme religiose. Questo scambio con le autorità religiose raggiunse allora toni molto eccitati. Non si doveva permettere nessuna opera buona di Dio nello shabbat! Era un’affermazione scioccante. Gesù rispose con un’affermazione opposta, ma ugualmente scioccante.

«II Padre mio agisce anche ora», disse Gesù, sottintendendo che la guarigione dell’invalido significava che Dio non smette di donare vita e pienezza neppure nello shabbat. L’ovvia implicazione era che Dio stava operando attraverso Gesù. L’audacia di una tale affermazione di Gesù fu confermata quando aggiunse che, come Dio, «anch’ io agisco» (Gv 5 , 17) perfino nello shabbat.

A questo punto i leader religiosi avevano due capi d’accusa. Quest’uomo, Gesù, non solo non aveva rispettato lo shabbat, ma si era anche identificato con Dio. Si era fatto «uguale a Dio». L’affermazione dell’unità tra Gesù e Dio viene messa in primo piano in questo racconto. Gesù è parte di chi è Dio. La comunità giovannea lo proclamerà in molti modi diversi e con simboli sempre più intensi che alla fine porteranno Gesù e Dio in una sorta di unità mistica. Allo stesso tempo le autorità della Sinagoga condanneranno come blasfema quell’affermazione e dichiareranno che Dio può solo operare attraverso i giusti canali religiosi e secondo le corrette norme religiose. I seguaci di Gesù appartenenti alla comunità giovannea si convinceranno sempre di più che Dio non può essere contenuto nelle forme create dalle mani dell’uomo. L’affermazione di Gesù, che Dio operi attraverso di lui, colpisce profondamente le autorità della Sinagoga. Il senso d’intimità di Gesù con Dio va al di là di ciò che possono tollerare. Gesù sta dicendo che l’unità dell’amore del Padre per il figlio appare dal fatto che il Padre realizza la finalità divina attraverso il figlio. A quel punto il discorso passa al tema della morte. 11 Padre risuscita i morti dando loro la vita, dice Gesù. Questo è anche ciò che fa il figlio. 11 figlio è la fonte sia della pienezza in questa vita sia della vita al di là di essa. Chi crede a ciò non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita, da una coscienza limitata a una partecipazione alla coscienza universale che trascende ogni limite umano e ogni frontiera, anche quella che separa questa vita dalla vita eterna. E un discorso profondamente provocatorio.

Poi l’autore continua con Gesù che fa riferimento, sebbene in modo obliquo, al racconto finale del Libro dei segni, la storia della risurrezione di Lazzaro. «Viene Fora», dice Gesù in questo episodio, «in cui i morti udranno la voce del figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno» (Gv 5,25). Nella storia di Lazzaro Gesù chiamerà i morti dicendo «Lazzaro, vieni fuori!» e Lazzaro, sentendo la sua voce, uscire dal sepolcro e si libererà delle vesti della morte. Nella storia di Lazzaro, le autorità religiose prenderanno la decisione di mettere a morte Gesù. In seguito esamineremo questa storia nei suoi dettagli, ma qui è già chiaramente presagita e introdotta. L’affermazione identificatrice è stata pronunciata.

«II padre ha la vita in sè stesso» e ha «concesso anche al figlio di avere la vita in sè stesso» (Gv 5 ,26).

Io vivo, Giovanni fa dire a Gesù, dentro la volontà di chi mi ha mandato. Alcuni l’hanno capito, come Giovanni il battezzatore che di questo rese testimonianza. Gesù dice senza ambiguità che le sue opere sono testimonianza della stessa realtà. Poi Giovanni fa ripetere incessantemente a Gesù questa affermazione: «Voi [le autorità religiose]», dice, «scrutate le Scritture» perché pensate di avere in esse la vita eterna, ma sono quelle Scritture che mi danno testimonianza. Ma voi non volete venire a me per avere vita. E Mosè che vi accusa ed è in Mosè, cioè nella Torah, che ponete la vostra speranza.

Ci si può domandare se, nella mente dello scrittore di questo Vangelo, l’invalido guarito fosse presente e ascoltasse questo dialogo. Ma non è importante, poiché è sempre lui il protagonista di questo dramma. Ha avuto l’esperienza di una nuova vita e della pienezza, ma è chiaro che non vuole afferrarle né entrare in esse. Non poteva sostenere questa nuova vita, questa nuova libertà, questa cosa che Paolo aveva chiamato «la libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21). Scelse invece di cercare il favore delle autorità della Sinagoga, di fidarsi della sicurezza delle sue norme religiose. Tremo sull’orlo di una nuova coscienza e poi ricasco in quello che credeva fosse la certezza del passato.

E così che il quarto Vangelo vedeva il conflitto tra la Sinagoga e la comunità giovannea ormai scomunicata. Molti membri di quella comunità non furono in grado di sopportare la separazione. Non potevano immaginarsi di poter sopravvivere senza rimanere attaccati al passato. Il loro culto doveva essere a Gerusalemme, piuttosto che «nello spirito e nella verità». Non tutti i seguaci di Gesù potevano percorrere la via verso la nuova coscienza che Giovanni stava delineando. Non potevano vedere la croce come il luogo della rivelazione della gloria di Dio. Non potevano abbracciare questa nuova realtà. Non potevano sopportare l’ansia dell’incertezza che è sempre richiesta dalla maturità. Volevano regole, scritture autorevoli, tradizioni sacre stabilite e fissate. Volevano, cioè, nascondersi in qualcosa di meno della vita. Non potevano realizzare la transizione richiesta per seguire Gesù.

Questo invalido, che in realtà aveva trovato pienezza in Gesù, simbolizza tutto questo. Nonostante la sua esperienza della nuova vita, non fu capace di vivere in quella pienezza, così tornò indietro nei simboli del suo passato spezzato e paralizzato. Giovanni vede ciò che Gesù offre in modo drammaticamente diverso. Scegliere la vita è una decisione costosa, ma è ciò che alla fine i seguaci di Gesù devono fare. Scegliere la vita, afferrarla, entrare nella vita e affermarla. Ci richiede una nuova visione, bisogna essere nati dallo spirito, rifuggire i dibattiti sulla superiorità religiosa o sulla forma o il luogo più adatto per adorare. Affermare la vita ci apre a dimensioni incredibilmente nuove di cosa significa essere umani. Questo è ciò che il Gesù di Giovanni potrà finalmente vivere. In questo episodio, e attraverso il personaggio di colui che per trentotto anni ha sopportato di essere infermo, Giovanni fa vedere il contrasto. Quando la pienezza viene offerta e perfino provata, qualcuno avrà sempre paura di continuare la ricerca e cosi ricadrà negli schemi del suo passato.

Giovanni evoca la nascita di una nuova vita. Non scrive di teologia e religione, ma fa intravedere come potrebbe essere una vita ampliata e cosa potrebbero simbolizzare una nuova identità e una coscienza universale. Questa Vangelo parla del passaggio dall’ antica comprensione di Dio degli ebrei, determinata storicamente, all’esperienza mistica della vita, libera dalla paura o dai bisogni di sicurezza religiosa che hanno gli esseri umani. Non tutti possono sostenere questa visione, ma chi può, suggerisce Gesù, entrerà in una nuova dimensione di vita che è eterna.

La narrazione di Giovanni va avanti. I membri della sua comunità, formata in primo luogo da seguaci ebrei di Gesù, essendo stati espulsi dalla vita religiosa degli ebrei, sono costretti adesso a ridefinire la loro esperienza senza fare appello alla vita precedente legata alla Sinagoga. La religione è stata superata, anche se la storia cristiana mostrerà che il cristianesimo sarà sempre vittima della religione e che quella battaglia, che il quarto Vangelo registra in questo episodio, dovrà essere combattuta incessantemente.