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Non espiazione, ma gloria! Giovanni chiarisce la morte di Gesù

da “Il quarto Vangelo – Racconti di un mistico ebreo” di John S. Spong

Entrando nel merito dei Discorsi di addio, è bene tener presente che il Gesù storico non ha mai detto nessuna delle parole che gli sono attribuite in questi discorsi, e non ha pronunciato nessuno degli insegnamenti che vi troviamo.

Questi discorsi rappresentano invece un’interpretazione del senso della morte di Gesù da un punto di vista legato a un momento storico, molti anni dopo la crocifissione. Sono il prodotto di una comunità che ha subìto due divisioni profonde e trasformanti: la separazione dalla Sinagoga cui ho già fatto riferimento e la frattura all’interno della stessa comunità giovannea sul modo di comprendere il rapporto tra Dio e Gesù.

La seconda divisione fece sì che alcuni dei seguaci di Gesù si sentissero così minacciati che cominciarono a far marcia indietro verso la Sinagoga. Non erano in grado di seguire il cammino verso il nuovo intrapreso da questa comunità. Dopo questa nuova separazione, i membri rimasti furono liberi di muoversi senza più ostacoli verso una nuova comprensione di Gesù. Ritengo che sia a questo punto che il dibattito cristologico abbia cominciato ad assumere connotazioni universali e mistiche, e che l’autore di questo Vangelo abbia preso, nei suoi scritti, una direzione molto diversa.

Non c’è in Giovanni nessuna traccia di quella che in seguito venne chiamata la «dottrina dell’espiazione». Quella dottrina era l’enfasi particolare che caratterizzava gli scritti di Paolo, specialmente i primi, e trovò espressione nella tradizione sinottica, mentre nel quarto Vangelo è assente. Paolo era ossessionato dal male umano. Si sentiva lui stesso prigioniero del suo potere. Per capire quanto sia diversa l’interpretazione di Giovanni, dobbiamo esaminare la formulazione della dottrina della redenzione.

Paolo descrive Gesù come colui che ha il potere di liberare la vita umana dalle profondità del peccato che l’ha fatta prigioniera. Quando Paolo racconta la storia della crocifissione, lo fa con queste parole: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture» (1Cor 15,3). È da quel testo che è nato il concetto espresso nella frase che è diventata un mantra per i protestanti e gli evangelicali: «Gesù è morto per i miei peccati». Lo stesso tema è espresso dai cattolici quando si riferiscono all’eucaristia come al «sacrificio della messa», un’espressione che significa che la messa è la rievocazione liturgica del momento in cui «Gesù morì per i miei peccati». Le due frasi esprimono lo stesso collegamento: che la morte di Gesù fu l’azione che portò salvezza o redenzione agli esseri umani peccatori. Dio, nella persona di Gesù e specialmente attraverso la sua morte, riportò la creazione alla sua perfezione originaria. Gesù riportò la vita umana all’unità con Dio.

La teologia dell’espiazione ha dominato il pensiero cristiano soprattutto sotto l’influenza di Agostino, vescovo e teologo della fine del IV secolo, poi attraverso Anselmo nel XII secolo, fino a Lutero e Calvino nel XVI secolo. Non avendo l’apparato critico per lo studio delle Scritture di cui disponiamo oggi, queste figure storiche interpretarono la Bibbia da una prospettiva essenzialmente letterale. Credevano che fosse costituita da un solo volume, scritto su ispirazione divina e perciò privo di qualsiasi errore, e così fusero le due storie della creazione con cui si apre il libro della Genesi in un’unica storia ininterrotta. Questo amalgama fu poi alla base della loro visione della vita umana che fece da sfondo alla loro interpretazione di Gesù. Non sapevano che le due storie (Gn 1,1-2,4a e 2,4b-3,24) erano state scritte da due autori differenti e distanti nel tempo ben 400 anni. La storia iniziale (essenzialmente la storia della creazione in sette giorni) è relativamente tarda, probabilmente un prodotto della fine del VI secolo a.C., e in qualche modo più moderna dal punto di vista della concezione. La seconda storia (essenzialmente la storia di Adamo, Eva, il giardino dell’Eden e il serpente) è il prodotto del X secolo a.C. ed è una storia ben più primitiva. Le due narrazioni sono di fatto piuttosto contraddittorie in molti particolari, anche se chiaramente nessuna delle due era stata scritta per esser letta letteralmente. Nella storia che nella Bibbia occupa il primo posto, Dio creò le «creature viventi» nel sesto giorno per popolare la terra. Sono descritte come «bestiame, rettili e animali selvatici» (Gn 1,24). Nella seconda parte del sesto giorno, Dio creò la vita umana, allo stesso tempo maschio e femmina e a immagine di Dio. Nel suo linguaggio piuttosto rigido e ovviamente patriarcale, il testo dice: «E Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e Dio disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela”» (Gn 1,27-28). Questa storia termina con Dio che dichiara «buono» tutto ciò che ha fatto e, poiché il lavoro divino a questo punto era ritenuto completato e perfetto, Dio si riposò e istituì lo shabbat, il settimo giorno, come giorno di riposo per tutta la creazione (Gn 1,31; 2,1-3). E da questa narrazione che Agostino e i suoi successori hanno attinto l’idea della perfezione originale della creazione di Dio, inclusa la perfezione degli esseri umani.

Nella seconda storia, che è in realtà più antica (Gn 2,4a-3,24), Dio creò prima la terra e i cieli, ma non c’erano né piante né erbe nei campi perché Dio non aveva ancora fatto piovere e «non c’era uomo che lavorasse il suolo» (Gn 2,5). Dio, tuttavia, fece salire dalla terra umidità per bagnare il suolo e da quel suolo o fango formò un uomo solo, soffiando nelle sue narici il respiro profondo della vita. Poi Dio creò un giardino e vi collocò l’uomo. Il giardino produceva spontaneamente cibo per l’uomo. Intorno al giardino scorrevano quattro fiumi, due dei quali avevano un nome, il Tigri e l’Eufrate, e questo, se vogliamo intenderlo in modo letterale, collocherebbe il giardino dell’Eden nell’attuale Iraq. L’uomo, secondo questa sto-ria, si sentiva solo e Dio decise che non era bene che l’uomo fosse solo (cfr. Gn 2,18), così, per dare un amico ad Adamo, Dio creò tutti gli animali. Ma nessuno di loro soddisfaceva il desiderio di compagnia dell’uomo. Il testo assume che oggi ci sia nel mondo una così grande varietà di dimensioni, forme e specie di vita animale perché, qualsiasi cosa Dio provasse, niente risultava adatto all’uomo. Finalmente, in un secondo, drammatico atto creativo, Dio fece addormentare Adamo, gli tolse una delle costole e con essa formò la donna. Così in questa storia l’uomo fu creato prima, poi gli animali e infine la donna. Non è possibile armonizzare queste due storie della creazione senza distorcere notevolmente il testo.

La seconda storia continua poi dando un resoconto di come il male entrò nel mondo perfetto di Dio, corrompendolo. Accadde a causa della disobbedienza a un comando divino dato ai due esseri umani. Come condizione per vivere nell’Eden, era stato loro ordinato di non mangiare il frutto dell’«albero della conoscenza del bene e del male», che stava in mezzo al giardino, ma loro non resistettero alla tentazione e mangiarono il frutto. Questo manifesto atto di disobbedienza ebbe come conseguenza l’espulsione dell’uomo e della donna dal giardino dell’Eden e quindi dalla presenza intima di Dio. L’assunto di questa storia è che, da quel momento, la vita umana fu costretta a essere vissuta «nel peccato». L’uomo e la donna non poterono più abitare nel giardino dell’Eden (neppure in senso figurato); gli esseri umani da allora in poi dovettero vivere «a est dell’Eden», per usare una frase di John Steinbeck.

Fu da questa seconda storia che Agostino e i suoi successori derivarono la concezione della «caduta» dell’uomo e, con essa, della realtà e delle conseguenze del peccato, con cui ora definivano la vita umana. Nonostante le inconsistenze, Agostino si apprestò a unire le due storie. Poi creò, attraverso la sua interpretazione, quel modello che il cristianesimo tradizionale userà come sfondo per raccontare la storia di Gesù. C’era un bene originale, così comincia questa storia ben nota, seguito da una caduta nel peccato che rese necessaria un’azione divina di redenzione nella quale Dio dovette venire in nostro aiuto. La salvezza fu realizzata, suggerisce il racconto, quando Dio mandò suo figlio a salvare il mondo dalla caduta e a liberare la vita umana dal peccato. Quella salvezza richiese la morte del figlio divino come «offerta per il peccato». In altre parole, Gesù dovette pagare il prezzo richiesto dal peccato. Così questa storia rappresentava il significato della crocifissione.

Questa stessa storia fu destinata a divenire il quadro di riferimento attraverso il quale il cristianesimo stesso sarebbe stato tradizionalmente compreso. Al sangue di Gesù versato sulla croce fu attribuito un grande potere di purificazione. Alcuni fedeli vollero bagnarsi in questo sangue finché i loro corpi non fossero purificati dal male e i loro peccati riparati o rimossi. Altri fedeli vollero bere il sangue di Gesù, offerto nel «sacrificio della messa», per essere internamente purificati, non solo dei peccati del corpo, ma anche di quelli della mente e dell’anima. Questo processo di espiazione si è infiltrato, nel corso della storia del cristianesimo, in tutto ciò che i cristiani pensano e in ciò che fanno. Lo troviamo nelle nostre dottrine, nei dogmi, nei credo, negli inni, nelle preghiere, nei sermoni e perfino nella nostra coscienza.

È veramente questo ciò che Paolo intendeva dicendo «morì per i nostri peccati secondo le Scritture»? Io ho seri dubbi. Anche se alcuni suoi testi sono interpretati così, io penso che Paolo si riferisse piuttosto a una pratica liturgica ebraica che descriverò fra breve. Comunque, l’espiazione è la prospettiva da cui Paolo fu interpretato da una Chiesa prevalentemente gentile, i cui membri non solo non conoscevano le concezioni liturgiche ebraiche, ma erano anche alquanto prevenuti e contrari ad apprendere qualcosa che appartenesse alla cultura ebraica.

Paolo attinse la sua concezione originaria probabilmente da tre immagini ebraiche che contenevano il sacrificio di un agnello. Due di esse erano immagini derivate da alcuni riti della Sinagoga che richiedevano la morte di un agnello: Pesach e Yom Kippur, il giorno dell’espiazione. La terza immagine ebraica dell’agnello conosciuta si trovava negli scritti di un profeta del VI secolo a.C., il Deutero-Isaia (chiamato così perché i suoi testi furono aggiunti al rotolo di Isaia, formando i capitoli 40-55). La figura ritratta da questo profondo scrittore ebraico in questo libro influente fu chiamata «il servo» o «il servo sofferente», ed era rappresentata come un agnello silenzioso che viene portato alla morte. Fin dall’inizio del movimento cristiano, Gesù fu visto e interpretato sulla base di tutte e tre queste immagini dell’ «agnello», familiari per gli ebrei devoti.

L’agnello di Pesach fu identificato con Gesù dallo stesso Paolo quando scrisse: «E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato» (1Cor 5,7). Nella tradizione ebraica, era il sacrificio dell’agnello pasquale che si credeva avesse avuto il potere d’impedire la morte tra gli ebrei la notte della loro fuga dall’Egitto e dalla schiavitù. La morte di Gesù si diceva che avesse portato la vita umana oltre i limiti imposti dalla morte. È in virtù dell’identificazione della morte di Gesù con l’uccisione dell’agnello pasquale che (sono convinto) tutti gli evangelisti hanno raccontato la storia della crocifissione sullo sfondo della celebrazione di Pesach. Questo collegamento non è storico, come per tanto tempo ci è stato insegnato, ma è il frutto di una interpretazione. Si ricordi che i Vangeli furono scritti almeno quarant’anni dopo la crocifissione, dando alla storia della crocifissione narrata secondo questa interpretazione tempo sufficiente per essere spostata al tempo di Pesach, in modo da non poter evitare di vedere il rapporto tra Gesù e l’agnello pasquale.

L’agnello di Yom Kippur è il secondo simbolo alla base dell’immagine paolina. Questa osservanza ebraica della penitenza aveva luogo una volta all’anno il terzo giorno del mese di Tishrì. Nella celebrazione di Yom Kippur normalmente venivano usati due animali. Tutti e due dovevano essere fisicamente perfetti, senza ferite, difetti o ossa rotte. Col tempo, questi animali sacrificali vennero visti anche come moralmente perfetti. Poiché gli animali vivono sotto il livello della libertà umana, non possono scegliere di fare il male. Perciò questi animali divennero la rappresentazione simbolica del desiderio umano di perfezione e integrità. Nella liturgia di Yom Kippur una di queste creature veniva uccisa e offerta a Dio come segno dell’anelito umano di essere uno con Dio. Il sangue del sacrificio veniva poi sparso sul trono di misericordia di Dio, situato nel «santo dei santi» nel Tempio, il luogo dove si pensava che Dio risiedesse. Questa liturgia di Yom Kippur proclamava che gli esseri umani, nonostante il loro peccato, potevano venire alla presenza di Dio per lo meno in questo unico giorno dell’anno, poiché adesso potevano passare attraverso il sangue purificatore del perfetto agnello di Dio. La loro identificazione con l’integrità dell’agnello copriva le realtà del loro senso di separazione e d’imperfezione.

La seconda creatura di Yom Kippur veniva poi posta in mezzo ai devoti, e la gente, guidata dal sommo sacerdote, cominciava a confessare i propri peccati. Secondo questa concezione liturgica, con la confessione i peccati si staccavano dalle persone e si posavano sulla testa e la schiena di questa creatura «portatrice di peccati». Poi, di questa creatura simbolicamente carica dei peccati confessati dalla comunità, la gente chiedeva la morte: era così carica di male da non essere ora più degna di vivere. Tuttavia la creatura non veniva uccisa, ma cacciata via nel deserto portando simbolicamente con sé i peccati del popolo e lasciandolo purificato e capace, almeno per un giorno, di essere «uno» con Dio. Questa creatura venne chiamata «il capro espiatorio».

Ci sono molti luoghi nella tradizione evangelica in cui questa liturgia di Yom Kippur sembra aver dato forma alla storia della morte di Gesù. In Giovanni questa identificazione di Gesù con le creature di Yom Kippur viene mostrata chiaramente. Solo nel quarto Vangelo si racconta che le gambe delle due persone crocifisse con Gesù vennero spezzate per accelerare la loro morte, ma che Gesù, già morto, non avrebbe avuto alcun osso rotto. Il simbolo dell’agnello rimase intatto (Gv 19,32-33). Inoltre, nelle storie sinottiche della crocifissione e anche in Giovanni, Gesù fu presentato alla folla e sentì il popolo che chiedeva la sua morte come aveva fatto con la crea- tura portatrice di peccati nella liturgia di Yom Kippur. Il grido della folla «crocifiggilo, crocifiggilo» fu trasferito, adattandolo da Yom Kippur, alla storia della crocifissione che gli scrittori dei Vangeli stavano sviluppando (Mc 15,13 sgg.; Mt 27,22 sgg.; Le 23,21 sgg. e Gv 19,6 sgg.). Infine, sono convinto che sia possibile leggere la storia di Barabba, introdotta in tutti e quattro i Vangeli come parte della crocifissione, come una narrazione ispirata dalla liturgia di Yom Kippur. Barabba è un nome formato da due parole ebraiche: bar, che significa «figlio», e abba, che significa «padre» o «Dio». Così, in tutti questi racconti evangelici, ci sono due figli di Dio sotto processo, Gesù e Barabba, così come ci sono due animali nella liturgia di Yom Kippur. Uno è ucciso: quella è la storia della crocifissione. Uno è liberato per portare via i peccati del popolo: quello è il ruolo assegnato a Barabba.

Rimane ancora la storia del «servo» del Deutero-Isaia. Anche lui è paragonato a un agnello condotto al macello, silenzioso di fronte ai suoi accusatori (/s 53,7). Questa storia fu scritta quando gli ebrei esiliati a Babilonia poterono finalmente ritornare alla loro terra dopo due o più generazioni in cattività. Arrivarono con grandi speranze di riportare la loro nazione alla gloria di un tempo, di ricostruire le mura di Gerusalemme e soprattutto di far riemergere dalla polvere un nuovo Tempio grazie al quale Dio avrebbe potuto nuovamente risiedere in mezzo a loro. I loro sogni grandiosi erano alimentati dalla possibilità di realizzare la vocazione del loro popolo, che credevano fosse ispirata e imposta da Dio. Come abbiamo notato prima, erano stati scelti per essere «una benedizione» per le nazioni del mondo (Zc 8,13). In precedenza, avevano creduto che questa vocazione potesse essere attuata in modo tale da portare onore e riconoscimento anche al popolo ebraico. Questo avrebbe dovuto essere il successo più grande del popolo eletto, per il quale il mondo gli sarebbe stato profondamente grato. Tuttavia, al ritorno dall’esilio, quei sogni furono distrutti dalla realtà che si trovarono davanti agli occhi. La città di Gerusalemme era stata rasa al suolo. Il Tempio era un cumulo di rovine. La gente che era andata a vivere in quella che gli ebrei consideravano la loro terra santa non era accogliente. Gli esiliati sulla via del ritorno si resero conto di non poter mai più realizzare la loro vocazione nazionale. Capirono che la nazione ebraica non avrebbe più avuto la possibilità di riacquistare un qualche significato tra i popoli del mondo. Acquisirono la consapevolezza di essere destinati a vivere nella debolezza, non nel potere; nel dolore, non nella gloria; come vittime, non come vincitori. Accettando questa realtà emotivamente e razionalmente, il profeta sconosciuto chiamato Deutero-Isaia concepì una nuova visione di come il popolo ebraico potesse realizzare la sua vocazione messianica ed essere ancora una benedizione per le nazioni del mondo. Dovevano trasformare la loro sconfitta e la loro debolezza in un’espressione della loro missione. Dovevano accettare di essere le vittime dell’ostilità del mondo e, così facendo, trasformare quell’ostilità in vita e integrità. Dovevano prosciugare l’ira del mondo semplicemente assorbendola e restituendola sotto forma di amore. Dovevano accettare la loro condizione di disprezzati, reietti; popolo dei dolori che conosce bene il patire. Dovevano essere feriti per le trasgressioni del mondo, insultati per le iniquità del mondo e, attraverso le loro sofferenze e le loro piaghe il mondo sarebbe stato reso integro. Il servo doveva essere il simbolo, la rappresentazione drammatica di questa nuova interpretazione della vocazione messianica del popolo ebraico. Dovevano affrontare le loro sofferenze in silenzio, senza aprire bocca per protestare. Così il servo, un altro agnello di Dio, divenne «un’offerta per il peccato», e così si diceva degli ebrei fedeli a questa vocazione che molti sarebbero stati considerati giusti (cfr. /s 53,11).

Non è difficile capire che questa concezione d’Israele come del «servo sofferente» non si dimostrò un’idea popolare in grado di motivare la nazione ebraica ad assumere tale vocazione. Nel I secolo, però, la morte di Gesù fu vissuta e interpretata dai suoi seguaci come l’attuazione della vocazione del «servo sofferente». Gesù assorbì l’ira, il dolore, l’ostilità e perfino la morte che altri riversarono su di lui e, così facendo, mostrò al mondo il significato dell’amore e perfino la gloria di Dio. Sembra che Paolo si sia maggiormente appoggiato alle immagini di Yom Kippur, mentre Giovanni era chiaramente più attratto dalle immagini del servo proveniente dal Deutero-Isaia.

Giovanni era senz’altro consapevole che questa interpretazione della morte di Gesù aveva spinto la comunità di Gesù in una direzione molto diversa. Credevano che il Messia fosse venuto in Gesù, ma il risultato era stato la sua crocifissione. Tuttavia Gesù, nella sua capacità di sopportare questa esperienza senza resisterle, aveva rivelato una nuova dimensione dell’integrità umana. La salvezza, concepita ora come un appello all’integrità, era stata realizzata ma solo nei pochi che «credevano», cioè coloro che erano andati oltre il loro istinto di sopravvivenza e avevano raggiunto un nuovo senso di ciò che significa essere umani. Quando i Vangeli sinottici furono scritti, dopo la distruzione di Gerusalemme e in mezzo all’oppressione esercitata dai Romani contro ogni espressione dell’ebraismo, anche i discepoli ebrei di Gesù furono costretti a subire la persecuzione. All’inizio avevano creduto alla promessa che la persecuzione sarebbe durata poco e che Gesù sarebbe ritornato. Con la sua seconda venuta, Gesù avrebbe istaurato il regno di Dio.

Arrivati al tempo in cui fu scritto il quarto Vangelo, però, quella speranza era divenuta vacillante, se non estinta. Erano passati 65-70 anni e Gesù non era riapparso. La persecuzione non era finita. Il regno del male non era stato distrutto. Allora Giovanni cambiò il messaggio e trasformò la storia di Gesù. Gesù non era morto per pagare il prezzo del peccato. Non aveva promesso di ritornare presto per istaurare il regno di Dio. Questo tipo di espiazione non apparteneva al vocabolario di Giovanni. Invece, Giovanni disse che Gesù era morto per aprire la vita umana a un nuovo significato, a una nuova definizione. La sua morte doveva essere il momento della sua glorificazione, il momento in cui Dio sarebbe stato completamente rivelato in lui.

Così Giovanni, in questi Discorsi di addio, fa sì che Gesù guidi i suoi discepoli verso questa nuova visione. Nel capitolo 14 assegna a tre discepoli la parte d’interpellanti, le cui domande permetteranno a Gesù di far loro comprendere il nuovo significato e la nuova concezione della sua morte. interrogante

Prima di tutto viene messo in scena Tommaso e gli viene dato un ruolo d’interlocutore. Gesù annuncia la sua partenza imminente dicendo ai suoi discepoli di non essere turbati, che lui preparerà un posto per loro e che ritornerà. Li riassicura che conoscono già la via. «Non cono-sciamo la via», replica Tommaso, «perché non sappiamo dove vai». Non si può sapere la via se non si sa la desti-nazione (Gv 14,5). A questo Gesù risponde: non lo capi-sci ancora, Tommaso, «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Il viaggio non è verso l’esterno, Tommaso, ma verso l’interno. Dio non è lassù; Dio è qui dentro. La sola via verso Dio è vivere il senso della vita di Cristo, scoprire la libertà di donare se stessi. Questa, e solo questa, è la via al Padre.

È poi Filippo a parlare, interrompendo la conversazione: «Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8), chiede. Gesù risponde: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo?» (Gv 14,9). Dio non è un essere esterno che tu devi localizzare e riconoscere in qualche luogo. Guardami Filippo! Io sono nel Padre e il Padre è in me. Dio opera in me, Dio parla attraverso di me. Questo è anche il tuo destino. Infatti, tu farai opere perfino più grandi di quelle che ho fatto io. Il segreto, però, è che tu osservi il nuovo comandamento. Devi amare, non per interesse, ma per amore. Quando sarò partito, verrà da voi lo spirito della verità. Sarà Dio che risiede in voi e voi che risiedete in Dio. «Ancora un poco» (Gv 14,19), dice Gesù – compare per la prima volta una frase che ricorrerà molte volte – passerà solo «un poco» prima che io ritorni e che queste cose succedano.

Allora prende la parola il terzo discepolo. Si chiama Giuda, ma Giovanni si affretta a dirci che non è Giuda Iscariota. «Signore», chiede, «come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?» (Gv 14,22). Gesù dice: devi capire che questa manifestazione è interna, non esterna. La rivelazione di Dio viene con la capacità di amare oltre i tuoi limiti. Se mi ami, osserverai la mia parola di amarvi l’un l’altro, e il Padre vi amerà come ha amato me. Allora il Padre e il Figlio verranno da voi e dimoreranno in voi. Faremo la nostra dimora in voi, conclude Gesù.

Gesù chiude questa parte del discorso dicendo: «Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi» (Gv 14,25). Poi cerca di preparare i suoi discepoli alla sua assenza. Quando sarò partito, dice, verrà lo Spirito Santo. Lo spirito vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto. Vi lascio la pace. Non è il tipo di pace che il mondo cerca, ma è quella pace che vi renderà capaci di capire la realtà che dovrete sopportare. Rallegratevi, perché io vado dal Padre e solo quando parto può venire da voi lo spirito. Vi prego di capire che il mondo non ha potere su di me. Il mondo non può uccidere chi sono. Sono parte di chi Dio è e anche voi lo sarete. Faccio quello che comanda il Padre perché amo il Padre. Voi fate ciò che io comando perché mi amate. Questa è la via verso la comprensione.

Il primo discorso finisce e Gesù pronuncia le parole menzionate prima: «Alzatevi, andiamo via di qui» (Gv 14,31). Parole simili si trovano nella tradizione sinottica quando Gesù, dopo avere lottato col suo destino pregando nell’orto, ritorna dai suoi discepoli che si sono addormentati. Ha accettato la sua, vocazione di morire. «Alzatevi», gli fa dire Marco, «andiamo» (Mc 14,41-42). Anche Giovanni adesso lo fa avanzare verso il suo destino, ma nelle mani di Giovanni il suo destino diventerà anche la sua gloria. Ascoltiamo le sue parole con rinnovata attenzione.