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Terach e la sua famiglia (11,26-32)

tratto dal volume “Da Adamo ad Abramo o l’errare dell’uomo – Lettura narrativa e antropologica della genesi” di Andrè Wènin

I pochi versetti che introducono Abram non interessano molto i commentatori. Le informazioni che forniscono sembrano poco importanti rispetto alla chiamata di Adonai, che inaugura veramente la storia del patriarca in 12,1. Al massimo, queste righe abbozzano uno sfondo negativo per questo racconto. Infatti, mettono in evidenza una duplice mancanza in Abram, un uomo senza bambini e strappato dal luogo in cui aveva le proprie radici.

26 E Tèrakh visse settanta anni e fece generare Abram, Nakhor e Haran.
27 E queste sono le generazioni di Tèrakh. Tèrakh fece generare Abram, Nakhor e Haran, ma Haran fece generare Lot
28 e Haran morì contro la faccia di Tèrakh suo padre nella terra della sua nascita, in Ur dei Caldei.
29 E Abram prese, e Nakhor, per loro delle donne: nome della donna di Abram, Sarai, e nome della donna di Nakhor, Milkah, figlia di Haran padre di Milkah e padre di Yiskah.
30 E Sarai fu sterile; non c’è per lei bambino.
31 E Tèrakh prese Abram suo figlio e Lot figlio di Haran, figlio di suo figlio, e Sarai sua nuora, moglie di Abram suo figlio, e uscirono con loro da Ur dei Caldei per andare verso la terra di Canaan, e vennero fino a Kharan e rimasero lì.
32 E i giorni di Tèrakh furono duecentocinque anni e Tèrakh morì a Kharan.

Anche se queste poche informazioni sembrano senza grande interesse, nell’ambito di una lettura narrativa assumono un’importanza capitale nella misura in cui presentano per la prima volta al lettore il personaggio che la chiamata di Adonai proietterà al centro dell’attenzione nei dodici capitoli seguenti. È forse possibile che queste prime informazioni abbiano solo una portata aneddotica? Sarebbe assai sorprendente, tanto più che situano Abram al centro di relazioni familiari dominate dalla figura di un padre, la cui famiglia è doppiamente segnata dalla morte: il figlio cadetto è morto mentre la sposa del primogenito è sterile. Essendo i primi dati riguardo ad Abram così legati alla sua famiglia di origine, è necessario guardare le cose da vicino, dato che le relazioni familiari hanno avuto un’importanza non trascurabile nelle pagine precedenti.

Dal momento in cui Terach diventa padre, il suo nome viene citato sette volte nel sommario che lo riguarda (11,26-32). I nomi di Abram e di Aran, suo fratello morto, sono citati sei volte ciascuno. Sulla base della simbologia dei numeri 6 e 7 in Gen 1,1-2,4, bisogna forse leggervi un segno di quanto Terach vive la sua paternità senza mettere un limite al potere esercitato sui suoi, in modo «non sabbatico», in un certo qual modo? Il nome del suo primo figlio potrebbe andare nello stesso senso. Infatti, questi si chiama Abram, «padre elevato», elemento che svela forse qualcosa del modo in cui il padre situa questo figlio. Nomen amen, dice il proverbio latino: quindi, il destino del figlio sarebbe forse quello di essere la fierezza di suo padre, di renderlo grande? In quanto al secondo, questi porta il nome del nonno Nacor, caratteristica unica nell’insieme del libro della Genesi. Terach potrebbe avere forse a cuore di onorare il proprio padre dopo aver proclama to, con il primogenito, l’elevazione conferitagli ai suoi occhi dal fatto di diventare padre?

Il nome del terzo figlio di Terach, Aran, non sembra prestarsi a un’associazione dello stesso tipo. Quel che si racconta di lui, però, colpisce per il suo carattere quasi brutale. Appena il narratore ha menzionato la sua nascita (v. 27b) aggiunge immediatamente che genera un figlio e che poi muore. La sequenza è tanto più strana in ebraico, poiché la menzione del parto del figlio viene introdotta da una rottura nella continuità narrativa, forse da un’opposizione («ma Aran fece generare Lot»). Pertanto, non sarà certo inutile interrogarsi su questa strana morte. Infatti, la breve narrazione che ne viene fatta unisce, con un nesso di successione, la morte di Aran al fatto che diventa padre. Del resto, la costruzione concentrica della frase ebraica fa in modo che le due menzioni di Aran si corrispondano, come anche i verbi di cui è soggetto: il primo fa di lui un padre, il secondo ne fa un morto:

Ora, il primo verbo di cui Aran è soggetto, «fece generare» (holid), è appena stato utilizzato in questa stessa forma all’inizio del v. 27, con Terach come soggetto: si tratta quindi di quello che fa di Aran un padre come suo padre. Sempre secondo la costruzione concentrica della frase, questa menzione di Terach corrisponde all’espressione che precisa le circostanze della morte di Aran: letteralmente, «contro la faccia di Terach suo padre» (v.28).

In questa breve sequenza narrativa sembra che sia stato preso in considerazione solo l’essenziale – e si sa che, quando un narratore si dedica a questo esercizio, spetta al lettore cercare di capire. Qui, i fatti si susseguono come se fosse necessario suggerire che, per il solo fatto di generare e, quindi, di diventare padre di un figlio, Aran si sia posto «contro la faccia» del proprio padre, come se, per così dire, gli avesse fatto un affronto. (Questo potrebbe anche essere suggerito dall’opposizione tra le due frasi, «Terach fece generare… ma Aran fece generare»). Comunque sia, lo scontro si salda con la scomparsa del figlio diventato padre. Non vi è forse spazio per due padri nella casa di Terach? È forse in questo che consiste la grandezza del padre proclamata dal nome del primogenito: in un monopolio della paternità, che è meglio non mettere in discussione? Questa morte brutale di Aran potrebbe in questo senso contenere un messaggio nascosto: bisogna che il figlio muoia in quanto figlio se vuole vivere come padre. È, comunque, quel che succederà per Abram e Nacor, che diventeranno padri solo dopo aver lasciato il proprio: Nacor rimanendo a Ur quando Terach andrà via (implicito in 11,31) e Abram lasciandolo per andare oltre, su ordine di Adonai (12,4).

Detto questo, probabilmente non è indifferente che la morte di Aran sopravvenga a Ur Casdim, «la terra della sua nascita», luogo della sua origine e anche quello della sua fine. Ora, il nome Ur (‘ùr) significa fuoco o fornace (cf. Is 31,9; Ez 5,2); Casdim, dal canto suo, è il nome dei Caldei, cioè, nella Bibbia, i babilonesi. La città di Ur è, del resto, situata a sud-est di Babilonia. Terach farebbe quindi parte di un gruppo che, al momento della dispersione dei costruttori di Nimrod, si è spostato a est, verso un luogo chiamato fornace, figura per eccellenza della fusione nell’indistinto, quel che era il progetto degli abitanti di Babilonia (in questo senso, ci sarebbe un motivo per cui la città si chiama «Ur dei Babilonesi»). Ora, se il progetto di Babilonia è quello di costruire un ‘unità fusionale, e quindi uniforme, intorno a un nome (11,3), è lecito chiedersi se a Ur questa logica si verifichi a livello di una famiglia, quella di Terach. La morte di Aran sarebbe allora il risultato – e quindi anche il sintomo – del desiderio paterno di mantenere la famiglia nella fusione intorno a un solo nome, il suo.

La scomparsa del cadetto di Terach è immediatamente seguita dal matrimonio dei due figli maggiori. Quindi, l’avvenire della famiglia non sembra definitivamente compromesso dalla morte dell’unico figlio-padre, dato che i suoi fratelli si sposano. La sposa di Nacor è anche una delle sue nipoti, figlia di Aran e sorella di Lot: Milca (Regina), la cui sorella si chiama Isca. La tendenza alla fusione della famiglia viene di nuovo confermata, poiché Nacor non esce dal clan per trovare moglie. Non accade, però, con Abram, il quale, invece di prendere Isca, l’altra nipote orfana, sceglie, fuori della famiglia, una donna di nome Sarai (il cui nome significa «miei prìncipi»). È importante notare che il narratore non presenta Sarai come

sorella di Abram – figlia dello stesso padre ma non della stessa madre -, come Abramo sosterrà di fronte ad Abimelech in 20,12. La conferma si legge in 11,31: quando il narratore precisa il legame tra Sarai e Terach, la presenta in modo preciso non come sua figlia, ma come «Sua nuora» (kallat), «donna di Abram suo figlio» (v. 31). Dato che il narratore è noto come affidabile, questa informazione deve essere considerata corretta. Sono quindi le parole di Abramo in 20,12 che vanno messe in dubbio, quando si difende di aver mentito aggiungendo una mezza bugia alla prima.

Questa Sarai è sterile (v. 30). Davanti a questa nuova situazione di morte rappresentata dalla sterilità di sua nuora, Terach reagisce. Come suggerisce il parallelismo nella struttura del passo, questo secondo pericolo per la vita della famiglia viene affrontato in modo analogo al primo: con un prendere che modifica le relazioni. Dopo la morte di Aran, i due figli maggiori «prendono» moglie. Qui, il padre «prende» i suoi familiari segnati dalla morte, cioè la coppia sterile e l’orfano Lot, presentato esplicitamente come figlio di Aran, per portarli altrove. Se questa partenza avviene solo con la coppia senza figli e con il figlio senza padre, non significa forse che è destinata a strapparli dalla sventura, lasciando un luogo che sembra maledetto? Niente lo dice esplicitamente, ma non è proibito pensarlo, poiché sappiamo che quanto mette gli esseri in movimento è la mancanza e il desiderio di vivere, attizzato da essa.

Ora, leggendo il racconto fatto dal narratore della partenza di Terach, non si può non essere colpiti dalla moltiplicazione dei termini che indicano legami di parentela, e da quella dei suffissi possessivi e dei complementi al genitivo che precisano questi termini. Si trovano ben sette sostantivi (in corsivo) e sette marchi di dipendenza (in grassetto): uno di ogni specie per Abram, tre per Lot e tre per Sarai (11,31a).

E Terach prese

– ABRAM suo figlio

– e LOT figlio di Aran figlio di suo figlio

– e SARAI sua nuora, moglie di Abram suo figlio.

A cosa servono queste ripetizioni, peraltro assolutamente inutili sul piano informativo, dato che il lettore già conosce le relazioni che uniscono questi personaggi? Non servono forse per sottolineare con forza i rapporti di stretta dipendenza tra queste persone, rapporti presieduti da Terach, colui che li «prende» tutti – un verbo di impossessamento? Del resto, entrambi i personaggi più direttamente colpiti dalla morte gli sono doppiamente legati attraverso due dei suoi figli: Lot, «figlio di Aran, figlio di suo figlio», non ha più padre; Sarai, «sua nuora, moglie di Abram suo figlio», non può avere figli. Queste due figure sono pertanto poste in una dipendenza diretta e indiretta nei confronti di Terach, senza che nessuno dipenda da loro. Si trovano, in un certo qual modo, alla fine della catena. Detto questo, la seconda parte della frase è ancora più curiosa, benché l’insistenza su questi molteplici nessi permetta probabilmente di capire: «E uscirono con loro …». Chi esce con chi? Tutti con tutti, probabilmente; o, piuttosto, ognuno con coloro che gli sono legati: Terach con coloro che prende, Abram con suo padre Terach e sua moglie Sarai, Lot con suo nonno Terach e il ricordo di suo padre morto, Sarai con suo suocero Terach e suo marito Abram.

Il meno che si possa dire è che una frase del genere riflette un universo familiare fusionale. Quando Terach prende e porta via i suoi, figlio, nipote e nuora, esercita su di loro il suo dominio, mette la mano sul loro destino. Facendo ciò, li priva della facoltà di esserne soggetti oppure li esonera da tale responsabilità. In altre parole, non lascia spazio a un’iniziativa che sarebbe loro propria – cosa che non è estranea a ciò che ha portato Aran alla morte. Insomma, Terach è un uomo che non sembra vivere la propria paternità in conformità con l’ideale espresso in 2,24, dato che non permette ai suoi di lasciare padre e madre per vivere la propria avventura. In queste condizioni, anche se lasciando Ur Terach prende un’iniziativa in vista del bene di coloro che sono stati segnati dalla morte, cercando di allontanarli dal luogo della loro sventura, rimane comunque che è lui il pezzo principale del dispositivo portatore di morte, che potrebbe disinnescare solo se trovasse il modo di ritirarsi. Anche se la sua intenzione è positiva, anche se la sua buona volontà è intera, la struttura relazionale di cui è la chiave di volta può solo annientare i suoi sforzi. Pertanto, se la partenza da Ur ha qualcosa di una nascita, o addirittura di una liberazione, dato che viene registrata con il verbo «uscire», questa non può essere portata a termine, nella misura in cui i molteplici legami mantenuti da Terach non vengono sciolti, quanto piuttosto rinforzati da questa partenza, come sottolinea il racconto.

Detto questo, quando Terach porta i suoi lontano da Ur, ha un progetto: «per andare verso la terra di Canaan», cioè verso la terra del nipote di Noè maledetto da suo nonno a seguito della colpa di suo padre Cam (9,22-25). Ora, a pensarci bene, qualcosa dello stesso tipo accade sulle tre generazioni della famiglia di Terach. Il nipote Lot viene, in un certo qual modo, privato di suo padre Aran a causa di suo nonno, mentre dalla parte di Abram una terza generazione non può vedere la luce. Così, in queste due famiglie, quando qualcosa non va nella relazione tra padre e figlio (che il responsabile sia il figlio o sia il padre), la generazione seguente ne paga le conseguenze ed è segnata dalla morte. Quindi, quando Terach prende la direzione del paese dei discendenti del figlio maledetto, sembra avverarsi il proverbio «chi si assomiglia si piglia».

In modo inatteso, però, il viaggio si interrompe di colpo. Giunti a Carran, a metà strada del tragitto inizialmente previsto, Terach e i suoi vi si insediano. Questa fermata potrebbe rivelare nel padre una contraddizione tra partire e rimanere, oppure, secondo quel che siamo venuti a sapere di lui fin qui, tra la sua volontà di cambiamento, da una parte, e l’inerzia dello status quo delle relazioni familiari, dall’altra. Del resto, non deve certo essere un caso se il narratore situa questa sosta a Carran (ebraico: Kharan), città dal nome paronimo di quello di Aran (ebraico: Haran), il figlio morto a Ur. Che Terach e i suoi si fermino in un luogo il cui nome ricorda lo scomparso, suggerisce che non hanno veramente lasciato il loro punto di partenza. Comunque sia, il gruppo si ferma, come fosse mantenuto nella morte, e ciò malgrado la volontà di vita che si può presentire nel padre. Perché qualcos’altro diventi possibile, sarà necessario l’intervento di colui che separa per permettere alla vita di svilupparsi in pienezza: Adonai (12,1). Abram, Sarai e Lot lasceranno allora Terach.

Ma Terach non è forse morto quando Abram se ne va? In realtà, è già morto, benché sia ancora in vita. È quel che potrebbe significare la nota relativa alla sua morte in 11,32. Infatti, questa nota viene ampiamente anticipata. Dato che muore a duecentocinque anni, Terach sopravviverà a lungo alla partenza di Abram. Quantomeno, di questo il lettore verrà presto informato. Terach, lo si sa, ha settanta anni al momento della nascita di Abram (11,26), e questi ne ha settantacinque quando lascia suo padre (12,4b). Terach ha quindi centoquarantacinque anni quando suo figlio se ne va. Ora, secondo 11,32, egli muore a duecentocinque anni, cioè sessanta anni dopo. Ma anticipando l’annuncio della sua morte prima della partenza di Abram, e situandola esplicitamente in un luogo che ricorda la morte di Aran, il suo cadetto, il narratore suggerisce che Terach, dimorando, per così dire, nel lutto di questo figlio, abita già la morte. Così, con la partenza di Abram, Terach appartiene ormai al passato; fa parte del mondo della morte, un mondo dal quale Abram sarà invitato a staccarsi. Pertanto, non troveremo più nessuna menzione di suo padre nel seguito del racconto.

Al termine di questo sommario, Abram si trova, per così dire, paralizzato. Sotto l’autorità di un padre di cui il proprio nome proclama l’elevazione, ha lasciato Ur dei Caldei, un luogo di confusione che prolunga la logica portatrice di morte di Babilonia. Del resto, egli stesso è circondato dalla morte. Suo fratello Aran muore quando diventa padre «davanti alla faccia» di Terach. Allora – a mo’ di risposta per questa morte? -, Abram sposa Sarai, ma ritrova in lei la morte sotto forma di sterilità. Partendo, Terach sembra voler sfuggire alla morte con coloro che questa colpisce; ma non si accorge che il suo modo di essere padre è, probabilmente, la prima causa di tutto ciò. Il fatto di prendere i suoi familiari segnati dalla morte e di farli uscire con lui mette in evidenza questa contraddizione. Certo, la sua volontà di far vivere è possibile. Ma lascia un luogo di morte solo per fermarsi con gli altri in un posto che ricorda ancora la morte, quella di suo figlio Aran.