Vai all'archivio : •

L’infarto teologico della sinodalità

di Jesús Martínez Gordo in “baptises.fr” del 13 agosto 2021 (traduzione dal francese: www.finesettimana.org)

Se il Sinodo sulla sinodalità che si aprirà prossimamente non terrà in considerazione la corresponsabilità di tutti i battezzati, rischia di generare una enorme frustrazione.
Mi sono reso conto che siamo già immersi, almeno teologicamente, in un tempo di preparazione sinodale sul “camminare insieme”; un compito che è anche intimamente legato alla comprensione e all’esercizio del primato di Pietro e, certamente, a ciò che Francesco chiama felicemente “la conversione del papato”. E ugualmente con la corresponsabilità di tutti i battezzati non solo nell’evangelizzazione e nella celebrazione, ma anche e soprattutto nel governo e nel magistero della Chiesa.
E quest’ultimo punto è una cosa che non trovo, per ora, presente nei contributi teologici che ho letto nella fase precedente l’inizio del processo sinodale che si aprirà nell’ottobre 2021 prossimo e che, sviluppandosi in sinodi nelle Chiese locali e in altre realtà particolari (ottobre 2021-aprile 2022), porterà ad una fase continentale (settembre 2022-marzo 2023), poi alla fase detta “della Chiesa universale” (ottore 2023).
Le due interpretazioni del primato di Pietro il 20 marzo 1955, Yves Congar si lamenta con amarezza nel suo diario sul suo trattamento da parte del Sant’Uffizio: “Vogliono ridurre a nulla un uomo che non è il loro lacché”. (Journal d’un théologien [Diario di un teologo] 1944-1956, Madrid,2004, pp. 404-405). E spiega che la causa di quelle sofferenze è da ricercare nella sua preferenza per una delle due interpretazioni contraddittorie in Matteo 16,19: «A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
Per i Padri della Chiesa, sostiene il teologo francese, ciò che è fondato su Pietro è la Chiesa. Di conseguenza, i poteri conferiti a Pietro passano da lui alla Chiesa. È il contenuto e il senso fondamentale di questa frase, nel cui contesto, prosegue Yves Congar, alcuni scritti dei Padri sono basati su Pietro. Alcuni Padri, prosegue Congar, soprattutto in Occidente, hanno ammesso l’esistenza di un primato canonico – cioè solo giuridico – del vescovo di Roma dentro la Chiesa. Tuttavia, la comprensione patristica di questa frase del Vangelo ha cominciato ad essere alterata – forse a partire dal secondo secolo – quando Roma ha creduto di vedere in Matteo 16,19 la propria istituzione. Secondo questa interpretazione, i poteri di Cristo non passano da Pietro alla Chiesa, ma da Pietro alla sede romana. La conseguenza di tale esegesi è chiara: la Chiesa “non si forma solo a partire da Cristo, tramite Pietro, ma a partire dal papa”. Questo significa che la coerenza e la vita della Chiesa – essendo costruite su Pietro – si basano sul papa e sui suoi successori, capi della comunità cristiana e, di conseguenza, luogo dove risiede il pieno potere (plenitudo potestatis).
Tutta la storia dell’ecclesiologia, prosegue il teologo domenicano, è l’attualizzazione permanente di un conflitto (a volte latente e pacifico, a volte vivace e aperto) tra queste due concezioni del papato e del governo ecclesiale: la concezione che sostiene che il potere di Cristo raggiunge tutta la Chiesa con l’intermediario di Pietro, e quella che sostiene che il potere di Cristo passa a Pietro e da Pietro a Roma. È un conflitto che prosegue fino ad oggi e che non è finito, nonostante gli sforzi di Roma stessa per estendere la sua interpretazione al resto della Chiesa.
Per fortuna esistono eccezioni importanti che indicano che Roma non ha raggiunto il suo scopo e che, soprattutto, mostrano la persistenza della concezione patristica del primato di Pietro, e quindi anche del governo ecclesiale.
Ad esempio, la Chiesa d’Oriente ha mantenuto la posizione dei Padri (benché spogliata dei suoi aspetti più positivi). Ugualmente, la Chiesa d’Africa (che è scomparsa a causa dell’islam) è rimasta fedele all’interpretazione patristica di Matteo 16,19. Anche nella stessa Chiesa cattolica, una certa resistenza a tale concezione romana è sempre esistita.
Il nostro compito (il mio compito) consiste, diceva il teologo domenicano, “a far in modo che questa verità non sia soffocata”. Di conseguenza, “bisogna che, quando arriverà ‘un papa ragionevole’ o quando apparirà il Re pastore, trovi ancora la Chiesa in resistenza, come dice Pascal”. E prosegue, quasi profeticamente, “al ritmo a cui vanno le cose, si può prevedere quale sarà la prossima tappa dell’ecclesiologia papista: consisterà nell’affermare che le congregazioni romane fanno parte del magistero ordinario; che sono la parte superiore di quel magistero, che risiede nel governo pontificio”.

L’attuazione e il blocco della collegialità episcopale

Fortunatamente, il Concilio Vaticano II ha superato la tesi insostenibile secondo la quale i vescovi ricevevano la loro giurisdizione (iure divino) direttamente dal papa, come aveva notificato Pio XII a suo tempo (Enciclica Ad signarum gentes, 1954).
La Costituzione dogmatica Lumen Gentium recupera il fondamento cristologico dell’episcopato (i vescovi sono “vicari e delegati di Cristo”, e non del papa) e la collegialità nel governo ecclesiale, e invalida la separazione tra il “potere d’ordine” e il “potere di giurisdizione”, ricordando che l’autorità dei vescovi non è concessa dal papa, ma deriva dal sacramento dell’Ordine.
Nella lettera apostolica De episcoporum muneribus (1966), Paolo VI riconosce che l’autorità dei vescovi è “propria, ordinaria e immediata” nelle loro chiese locali. Inoltre, con il Motu Proprio Apostolica sollicitudo (1965), ha istituito il Sinodo dei vescovi per assistere il papato nella sua sollecitudine per la Chiesa universale e ha istituito le Conferenze episcopali, dotandole di una certa capacità giuridica e magisteriale. Sono decisioni che lo accreditano – per riprendere l’espressione proposta da Yves Congar – come un “papa assolutamente ragionevole”.
Ma ci sono altri documenti che lo rimettono in discussione: la “riserva” al primato di tutta una serie di questioni teologiche e pastorali di una importanza e di una attualità enormi (tra le quali la possibilità dell’ordinazione delle donne); la sottomissione del Sinodo dei Vescovi all’autorità “diretta e immediata” del Pontefice Romano e le sue enormi difficoltà ad immaginare (e ad articolare) un governo veramente collegiale con la collaborazione delle Conferenze episcopali o, almeno, dei loro presidenti.
Il pontificato di Giovanni Paolo II è, in confronto, “piuttosto meno ragionevole” di quello di Paolo VI. È vero che chiede aiuto nell’enciclica Ut unum sint (1995) per ripensare l’esercizio del primato e il modo di governare la Chiesa. È vero anche che ha perfino aperto il dibattito sul ritorno o meno al modello dei patriarcati, in vigore nel primo millennio: un dibattito che la Congregazione per la Dottrina della Fede, presieduta da J. Ratzinger, ha rapidamente tentato di chiudere convocando un seminario ad hoc con degli esperti contrari a tale possibilità.
Tuttavia, si tratta di un papato nel quale si torna alla separazione preconciliare tra il “potere d’ordine” e il “potere di giurisdizione”: il ruolo della Curia vaticana nel governo ecclesiale è rafforzato – a scapito della sacramentalità e della collegialità.

Il “boom” della sinodalità senza corresponsabilità battesimale?

Francesco, contrariamente ai suoi predecessori, è andato molto più in là. Innanzitutto perché ha preso l’iniziativa di consultare, prima di ogni Sinodo, il popolo di Dio. Inoltre, ha esortato alcune conferenze episcopali (ad esempio la conferenza italiana) ad aprire dei processi sinodali. E ha rivisitato lo statuto dei sinodi dei vescovi (Episcopalis Communio, 2018), aprendo la possibilità di tenere dei sinodi straordinari (1 & 2.3) o dei sinodi speciali e deliberativi (ibid. 18 & 2). Si tratta di progressi notevoli. Ma, soprattutto, convocando un processo sinodale unico che culminerà con la celebrazione dell’Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi nell’ottobre 2023.
Tuttavia non vedo che – ad accompagnare queste decisioni – vengano affrontata due questioni – almeno nella comunità teologica – che mi sembrano cruciali: una, teologica e dogmatica, e l’altra, giuridica e organizzativa. Vedremo se esse appariranno nel “Documento preparatorio” che, accompagnato da un Questionario e da un “Vademecum” con delle proposte di consultazione in ogni diocesi, deve essere inviato dal Segretariato generale del Sinodo nell’aprile 2021 al più tardi.

Testo originale in spagnolo: https://www.religiondigital.org/opinion/infarto-teologico-sinodalidad-Gentium-Concilio-Francisco_0_2362863705.html